Salario minimo, l’UE spinge ma l’Italia è bloccata
L'Italia, insieme a Danimarca, Austria, Finlandia, Svezia e Cipro, non ha ancora adottato il salario minimo
L’11 novembre 2021 il Parlamento europeo ha votato a maggioranza una nuova direttiva per introdurre il salario minimo in tutta l’Unione. Già l’anno precedente la direttiva era stata oggetto di trattativa, ma solo quest’anno è arrivato il via libera. Attualmente in Ue sono 21 i Paesi ad avere un salario minimo nazionale, anche se con importanti differenze tra gli Stati. L’Italia non è tra questi, insieme a Danimarca, Austria, Finlandia, Svezia e Cipro.
Il salario minimo nell’UE
Fondazione europea ha realizzato uno studio per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro (Eurofound), da cui sono emerse alcune cifre interessanti sui salari minimi nell’UE. Il Lussemburgo ha il salario minimo mensile più alto (2.275 euro), la Bulgaria il più basso (332 euro). Gli altri Paesi dove il salario è più elevato sono: Irlanda (1.775 euro), Paesi Bassi (1.725), Belgio (1.658), Germania (1.621), Francia (1.603). Per gli altri la cifra oscilla tra i 500 e i 700 euro.
La situazione in Italia
Nel nostro Paese il salario minimo non è mai stato considerato favorevolmente da sindacati e datori di lavoro. E, se per questi ultimi il motivo è piuttosto scontato, per i primi si tratta di un timore legato al rischio che un salario imposto per legge potrebbe addirittura avere risvolti controproducenti per quelle categorie che hanno paghe più elevate, raggiunte grazie a contrattazioni tra le parti e contratti pluriennali. Secondo l’ultimo rapporto del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, questo caos si ripercuote sulla struttura contrattuale: nei 12 settori produttivi principali, i sindacati hanno firmato 60 contratti nazionali, con una copertura dell’89% degli addetti; a questi vanno aggiunti altri 796 contratti pseudonazionali, che riguardano l’11% dei lavoratori, per un totale di 856 contratti.
L’obiettivo del Ministro Orlando
Il divario salariale e normativo tra contratti nazionali e pseudonazionali resta enorme, e questo ha contribuito all’aumento dei lavoratori poveri. Ecco perché sulla tabella di marcia del Ministro del Lavoro Orlando c’è l’urgenza di un cambiamento di linea politica dell’Italia. Per farlo, serve uscire da un immobilismo che dura da decenni. L’idea calda è quella di un metodo di intervento graduale, che tenga conto delle differenze storiche tra i paesi Ue ma che permetta di raggiungere un obiettivo comune. Chi guadagna meno del 60% del reddito che interessa il 50% dei lavoratori, è da ritenere povero. Questo riguarda circa un quarto dei lavoratori italiani, in particolare quelli che lavorano a tempo part time e i lavoratori autonomi. Per migliorare le loro condizioni, si sono avanzate cinque proposte sperimentali, come l’introduzione di minimi salariali adeguati. In questo modo, la sperimentazione potrebbe concludersi con un provvedimento definitivo, condiviso dalle varie parti in causa. Resta da capire se i sindacati italiani decideranno di partecipare o meno a questa sfida.
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