Riflessione sui verbali di conciliazione
Oggetto di questa breve riflessione vuole essere soltanto la puntualizzazione di alcune problematiche scaturenti dai verbali di accordo nelle c.d. “sedi protette” (commissione provinciale di conciliazione , sede sindacale, o sedi degli organi di certificazione), tralasciando quelle che avvengono in sede di conciliazione monocratica (art. 11 del D.L.vo n. 124/2004) che, in genere, hanno origine e contenuti diversi e per le quali appare necessario un approfondimento a parte.
La questione si pone, innanzitutto, alla luce dei contenuti dell’art. 1, comma 40, della legge n. 92/2012 che, innovando l’art. 7 della legge n. 604/1966, ha dato un ruolo attivo e propositivo alla commissione provinciale di conciliazione che deve utilizzare ogni strumento possibile per addivenire ad una soluzione positiva della controversia: anzi, il Legislatore, puntando sull’accordo economico, ha riconosciuto la possibilità al lavoratore oggetto di recesso per giustificato motivo oggettivo (nelle imprese dimensionate oltre i quindici dipendenti), di accedere al “godimento” dell’ASpI pur in presenza di una risoluzione consensuale del rapporto, cosa che rappresenta una eccezione rispetto al principio della “involontaria disoccupazione”. Quindi, valorizzazione piena dell’attività di tale organo collegiale che, in via ordinaria, opera attraverso sotto commissioni, ove, è bene ricordarlo, sono presenti le parti sociali e che, con altri compiti (qui il tentativo di conciliazione non è obbligatorio come nell’art. 7 della legge n. 604, ma facoltativo, dopo l’intervento operato dalla legge n. 183/2010) tratta le controversie che hanno un contenuto prettamente economico.
Ed è proprio su quest’ultimo aspetto vertenziale (il discorso è del tutto identico per le conciliazioni ex art. 411 cpc e per quelle intervenute avanti agli organi di certificazione) che intendo soffermarmi, partendo anche dalla distinzione concettuale esistente tra rinunce e transazioni di cui spesso si parla nei verbali di accordo e sulle quali, talora, si fa un po’ di confusione.
Con le prime ci si riferisce a delle dichiarazioni unilaterali di volontà (in forma scritta), indirizzate all’altra parte, con le quali si rende noto che si intende rinunciare ad un diritto di cui si ha la disponibilità, cosa, quest’ultima, molto importante perché non si può, in alcun modo, rinunciare a qualcosa rispetto che non si possiede (ad esempio, rinunce a retribuzioni future che non sono nella sfera di disponibilità).
Con le seconde, invece, è necessario far riferimento all’art. 1965 c.c., il quale le definisce, nella sostanza, negozi giuridici attraverso i quali le parti si fanno reciproche concessioni, conciliano una vertenza in corso o ne prevengono la nascita: da ciò discende che le transazioni postulano una controversia reale o potenziale e mirano, attraverso l’accordo, a risolverla o a prevenirla. Le transazioni raggiunte avanti alle c.d. “sedi protette” sono sottratte, per la valenza dell’organo avanti al quale avvengono, alla disciplina della invalidità (art. 2113 c.c.), fatti salvi quei principi generali (da dimostrare in giudizio) che fanno riferimento al vizio del consenso, od alla illiceità o alla indeterminatezza dell’oggetto. Soltanto l’interessato può proporre l’impugnazione, essendo tale diritto potestativo, perché non trasmissibile, escluso per gli eredi. Ovviamente, non rientrano tra le transazioni le c.d. “quietanze a saldo” con le quali il lavoratore dichiara di ritenersi soddisfatto e di non aver altro da pretendere. Esse rappresentano, soltanto, una dichiarazione per nulla preclusiva della possibilità, a fronte di conteggi effettuati successivamente, di chiedere, nei limiti prescrizionali, quanto dovuto.
Una questione di particolare importanza che, sovente, si rileva nei verbali è quella delle c.d. “dichiarazioni liberatorie onnicomprensive” di natura volutamente generica ove, l’interessato dichiara di rinunciare a qualsiasi ulteriore rivendicazione concernente l’intercorso rapporto di lavoro. A mio avviso, così come è posta, la cosa non va, atteso che occorre salvaguardare il diritto del lavoratore ad avere piena conoscenza di ciò che gli viene corrisposto e, soprattutto, del “perché”: da ciò discende la necessità che le voci siano dettagliatamente identificate. Ed è proprio, in questi casi, che l’organo conciliativo, qualunque esso sia, deve svolgere la propria funzione istituzionale, non potendosi limitare ad esclusivamente notarile.
Ma i contenuti del verbale di accordo sottoscritto avanti ad uno di questi organi “protetti” vincolano gli organi di vigilanza? Se le parti hanno sostenuto che quel rapporto ha avuto le caratteristiche dell’autonomia e non della subordinazione e che, magari, è cominciato da una certa data, riescono a “stoppare” gli eventuali accertamenti ispettivi?
La risposta, supportata sia da chiari orientamenti della Cassazione che dell’INPS, è negativa, nel senso che l’atto transattivo, inoppugnabile per le questioni economiche, non è vincolante, nei limiti della prescrizione, per chi effettua gli accertamenti. Del resto, la Suprema Corte, con la sentenza n. 17485 del 28 luglio 2009, ha sostenuto che sulle somme corrisposte dal datore di lavoro a titolo di transazione, l’Istituto è abilitato ad azionare il credito contributivo dovuto provando, con qualsiasi mezzo, che le eventuali somme riconosciute a tale titolo, sono assoggettabili a contribuzione: del resto, in una precedente pronuncia (Cass., n. 6663 del 9 maggio 2002) si era sostenuto che le somme erogate al fine di prevenire il rischio della lite e che non contenevano alcun riconoscimento di diritti del lavoratore andavano coordinate con l’indagine del giudice di merito circa la natura retributiva o meno delle somme corrisposte a prescindere dal loro titolo formale. D’altra parte, per escludere il nesso di corrispettività (che si desume) scaturente dal rapporto di lavoro, è necessario che risulti, veramente, un titolo autonomo, del tutto diverso e distinto dallo stesso ma, soprattutto, deve risultare “per tabulas” la motivazione che ne giustifichi la corresponsione.
La “rivendicazione contributiva” da parte degli organi di vigilanza si arresta, soltanto, in presenza di un accordo raggiunto nella c.d. “conciliazione monocratica”, intervenuta avanti ad un funzionario della Direzione territoriale del Lavoro, secondo le procedure previste dall’art. 11 del D.L.vo n. 124/2004 il quale afferma che il pagamento delle spettanze economiche risultanti dall’accordo ed il pagamento dei contributi previdenziali ed assicurativi riferiti al periodo concordato tra le parti, estinguono il procedimento ispettivo che, è bene ricordarlo, nasce da una denuncia presentata dal lavoratore che lamenta, oltre a richieste di natura economica, anche la violazione di precetti “non penali”, legati al rapporto di lavoro e per i quali sono ipotizzabili sanzioni amministrative. Ovviamente, l’espletamento del tentativo di conciliazione monocratica preventiva a cui si è appena fatto cenno e che è, concettualmente diversa da quella c.d. “contestuale”, presuppone che su quelle cose lamentate dal lavoratore non sia in corso un accertamento ispettivo.
Da ultimo, alcune considerazioni relative all’aspetto fiscale nelle transazioni.
Qui, il parametro di riferimento è rappresentato dall’art. 6 del DPR n. 917/1986: non sono imponibili quelle somme corrisposte a titolo di ristoro per un danno emergente (ad esempio, danno all’immagine), mentre, del tutto diverso, è ciò che riguarda il c.d. “lucro cessante”, ove alcune somme sono da considerare come reintegrative del reddito: esse sono imponibili, seppur soggette ad imposizione fiscale con aliquote diverse (ad esempio, indennità di mancato preavviso, incentivo all’esodo, risarcimento del danno per licenziamento illegittimo, ecc.). Vale la pena di ricordare l’indirizzo sostenuto dalla Corte di Cassazione, con la sentenza n. 26385 del 30 dicembre 2010 con la quale è stato affermato che per poter negare l’assoggettabilità ad IRPEF di una somma corrisposta ad un lavoratore, è necessario accertate che l’ammontare non trovi la propria ragione nel rapporto di lavoro e, allorquando non venga escluso dalla volontà espressa dalle parti nell’atto transattivo, non trovi la fonte dell’obbligazione né in redditi sostituiti, né nel risarcimento del danno per la perdita di redditi futuri alla cessazione del rapporto.
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1 Commenti
Gabriele Angeli
Aprile 14, 09:23E’ vero che il “verbale di conciliazione” non ha il potere di fermare le pretese ispettive, ma il contenuto delle dichiarazioni sottoscritte dalle parti ed avvallate dai conciliatori, sarà fonte di prova, nella eventualità che il verbale ispettivo ed il verbale conciliativo non parlino la stessa lingua!!!. Angeli Gabriele