Licenziamenti Jobs Act: Le criticità delle sentenze
L'editoriale di Eufranio Massi
Due recenti sentenze della consulta sui licenziamenti del jobs act
A partire dal 2018 la Corte Costituzionale è tornata, più volte, sull’impianto normativo dell’art. 3 del D.L.vo n. 23/2015, riformandone, perché contrari alla Costituzione, alcuni punti fondamentali. Ciò non ha, però, comportato, significativamente, il ritorno alla disciplina dell’art. 18 della legge n. 300/1970, peraltro emendato profondamente dall’art. 1 della legge n. 92/2012.
Senza riprendere argomenti che ho già trattato su questo blog in occasione di precedenti decisioni, mi limiterò ad illustrare (magari, sottolineandone alcune criticità) quanto affermato con le sentenze n. 128 e 129 depositate lo scorso 16 luglio.
Sentenza n. 128: Illegittimità Costituzionale del comma 2
Con la prima, la Consulta ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del decreto legislativo n. 23/2015, laddove, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo non era prevista la reintegra nel posto di lavoro, qualora dal giudizio instaurato emergeva l’insussistenza del fatto materiale (ad esempio, soppressione del posto di lavoro) posto dall’imprenditore a giustificazione del recesso.
Il paragone che viene effettuato è quello tra il licenziamento disciplinare ove l’insussistenza del fatto materiale comporta la reintegra (sia pure con l’indennità attenuata) ed il licenziamento per giustificato motivo oggettivo nel quale è prevista l’indennità risarcitoria correlata all’anzianità aziendale (sia pure integrabile dal giudice entro il tetto massimo previsto, sulla scorta dei criteri ex art. 8 della legge n. 604/1966). I giudici costituzionali hanno rilevato la illogicità della disposizione accertando che la norma, a fronte della inesistenza del fatto materiale portava a risultati finali del tutto diversi, ove un recesso per GMO aveva conseguenti meno pesanti per il datore di lavoro che, in tali casi, poteva scegliere il regime sanzionatorio più leggero, percorrendo tale ultima via.
Il “vulnus” individuato dalla Corte era ed è evidente e, in tale logica, il mancato repechage resta estraneo al fatto materiale (inesistente) alla base del licenziamento. Se, invece, il licenziamento si basa su un fatto materiale realmente esistente, ma il datore di lavoro ha omesso di verificare le eventuali posizioni alternative da offrire al dipendente oggetto di recesso, non sussiste alcuna reintegra e continua ad applicarsi la tutela indennitaria.
Sentenza n. 129: Interpretazione Costituzionalmente orientata
Con la seconda la n. 129 la Consulta non abroga una norma ma ne fornisce una lettura costituzionalmente orientata osservando che la mancata previsione della reintegra, laddove il fatto contestato è identificato dal contratto collettivo e punito da una sanzione di natura conservativa, contrasta con il pieno riconoscimento dell’autonomia collettiva ex art. 39 Cost., come fonte primaria delle regole che disciplinano un rapporto di lavoro. Di conseguenza, allorquando la sanzione disciplinare che ha portato alla lettera di licenziamento viene, espressamente, punita nel codice disciplinare contrattuale da una sanzione conservativa, si configura, una “insussistenza del fatto materiale” di cui parla il comma 2 dell’art. 3, cosa che comporta, necessariamente, la reintegra attenuata.
Qui, a mio avviso, può sorgere una questione che provo a riassumere: la reintegra scatta soltanto in caso di infrazioni “tipizzate”, ossia ben definite dalla contrattazione collettiva (con le parti sociali che hanno fatto buon uso della loro autonomia), oppure si può verificare anche in casi, molto frequenti, ove il contratto collettivo identifica un apparato sanzionatorio con espressioni di carattere generale?
La domanda non è peregrina in quanto in un recente passato, la Corte di Cassazione con le sentenze n. 11665/2022 e n. 13065/2022 ha affermato, a fronte di recessi di natura disciplinare, che il giudice, in presenza di una non chiara esplicitazione da parte delle norma collettiva, può, in via interpretativa, estrarre dalla stessa la sanzione di natura espulsiva o conservativa che si sarebbe dovuta applicare al dipendente licenziato.
Il prossimo futuro, soprattutto per come certi indirizzi saranno recepiti dalla Magistratura di merito e da quella di legittimità, ci dirà quale sarà la sorte dell’art. 3 del decreto legislativo n. 23/2015, fortemente rivisto dalla Consulta con queste e con le precedenti decisioni.
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