Le maggiorazioni del ticket licenziamento nelle procedure collettive di riduzione di personale [E. MASSI]
Con il comma 2 dell’art. 16 il disegno di legge di bilancio relativo al 2018 (A.S. n. 2960) aumenta, notevolmente, l’importo del contributo di ingresso alla NASPI che le imprese che rescindono il rapporto con loro dipendenti al termine della procedura collettiva di riduzione di personale, dovranno pagare dal 1 gennaio 2018.
Prima di entrare nel merito di alcune questioni operative, legate soprattutto ai costi, credo che sia necessario focalizzare l’attenzione sul dettato normativo.
Le aziende che rientrano nel campo di applicazione della integrazione salariale straordinaria se, procedono a licenziare proprio personale al termine dell’iter previsto dagli articoli 4 e 5 della legge n. 223/1991, saranno tenute a pagare un ticket molto più pesante rispetto all’attuale.
Non rientrano tra i destinatari i datori di lavoro che abbiano aperta la procedura (che inizia con la comunicazione inviata alle parti sociali, agli organi territoriali dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro ed all’Ufficio competente indicato dalla Regione, se la controversia insiste su un ambito territoriale locale, o alla Direzione Generale delle Relazioni Industriali del Ministero se la stessa investe ambiti più ampi) entro il 20 ottobre 2017, pur se la stessa terminerà nel corso del 2018.
Ma, come avverrà l’aumento?
La norma prevede che, in tali ipotesi, l’aliquota percentuale, fissata dall’art. 2, comma 31, della legge n. 92/2012, passi dal 41% del massimale di NASPI (1195 euro, valore 2017) all’82%.
Tale novità si cala sulla previsione contenuta nel comma 35 dell’art. 2 della legge n. 92/2012 secondo la quale dal 2017, in sostituzione del vecchio contributo di ingresso alla mobilità (andato “in soffitta” con la fine di tale istituto), nei casi di licenziamenti collettivi effettuati senza accordo sindacale l’importo del contributo sia moltiplicato per tre.
Esso, come ben si evince dalla circolare n. 44/2013 dell’INPS, viene calcolato sulla base della effettiva anzianità aziendale con un tetto massimo fissato a trentasei mesi, a prescindere se il rapporto a tempo indeterminato sia stato a tempo pieno o a tempo parziale: nel 2017 (ma, forse, nel 2018, presumibilmente, ci potrebbe essere un incremento di lievissima entità in quanto legato alla variazione dell’indice ISTAT) risulta essere di 1469,95 euro (40,83 per ogni mese).
Alcuni chiarimenti si ritengono, a mio avviso, necessari prima di affrontare le questioni dell’impatto economico sulle imprese interessate.
Non rientreranno nel campo di applicazione della nuova normativa le imprese non rientranti nel campo di applicazione della integrazione salariale straordinaria, oggi prevista per crisi aziendale e per riorganizzazione e ben disciplinata dal decreto legislativo n. 148/2015. Il “discrimine”, quindi, si trova all’interno di esso ed, esattamente, nell’art. 20 che, ad esempio, dopo aver individuato, ai commi 1 e 3, le imprese che, mediamente, abbiano occupato più di quindici dipendenti, compresi gli apprendisti ed i dirigenti, oltre alle compagnie aeree ed alle società di gestione aeroportuale, ai partiti ed ai movimenti politici (a prescindere dall’organico) destinatarie del trattamento di integrazione straordinaria, al comma 2, stabilisce, indirettamente, che non sono destinatarie dell’aumento le imprese che, mediamente, occupano fino a cinquanta dipendenti, compresi dirigenti ed apprendisti:
- imprese esercenti attività commerciali, comprese quelle della logistica;
- agenzie di viaggio e turismo, compresi gli operatori turistici.
La norma all’esame del Parlamento non ne parla, ma ritengo che non entrino, nel campo di applicazione del “ticket maggiorato”, le aziende che fanno ricorso al Fondo di integrazione salariale o ai Fondi alternativi bilaterali di cui parlano gli articoli 26 e seguenti del decreto legislativo n. 148/2015: qui, se il testo rimarrà invariato, occorrerà attendere chiarimenti amministrativi del Ministero del Lavoro e dell’INPS.
Ovviamente, il ticket resta invariato (quindi, 41% del massimale di NASPI) per i datori di lavoro che effettuano licenziamenti individuali, a prescindere dal limite dimensionale e dalla motivazione (giustificato motivo oggettivo, soggettivo o giusta causa) o recessi dal rapporto di apprendistato al termine del periodo formativo, con l’esercizio dell’opzione prevista dall’art. 2118 c.c., o dal lavoro intermittente a tempo indeterminato (con il computo strettamente correlato alle giornate di effettiva prestazione).
Esso, è bene ricordarlo, a prescindere dall’entità (quindi, sia nell’ipotesi “normale” che in quella “maggiorata”), soggiace alla ordinaria disciplina sanzionatoria prevista in materia di contribuzione obbligatoria.
Per completezza di informazione, ricordo come il datore di lavoro sia tenuto al pagamento del contributo di ingresso sia nel caso di dimissioni della donna, confermate avanti al funzionario dell’Ispettorato territoriale del Lavoro, nel c.d. “periodo protetto”, individuato dal decreto legislativo n. 151/2001 che nella ipotesi in cui sia sia raggiunto un accordo per la risoluzione consensuale del rapporto avanti alla commissione di conciliazione ex art. 7 della legge n. 604/1966 (licenziamento per giustificato motivo oggettivo nelle imprese dimensionate oltre le quindici unità) o ad accettazione dell’offerta conciliativa facoltativa, successiva al licenziamento ex art. 6 del decreto legislativo n. 23/2015 (interpello Ministero del Lavoro n. 13/2015). Restano, invece, esclusi dal pagamento del contributo i datori di lavoro che esercitano
Il contributo “raddoppiato” trova, a mio avviso, applicazione anche alla ipotesi in cui il datore di lavoro, rientrante nel campo di applicazione della CIGS, effettui in un arco temporale di centoventi giorni, almeno cinque licenziamenti riconducibili alla stessa motivazione (riduzione o trasformazione di lavoro) senza effettuare la procedura collettiva che, pure, il comma 1 dell’art. 24 della legge n. 223/1991 richiede. Senza entrare nel merito circa la legittimità dei recessi (ci sono questioni di natura procedurale che non sono state rispettate), ritengo che il fatto di non aver, colpevolmente, seguito l’iter previsto dagli articoli 4 e 5, non li esima dal pagamento del nuovo ticket.
Ma esiste qualche ipotesi nella quale il contributo non va pagato?
La risposta è positiva laddove intercorrano dei licenziamenti finalizzati alla “tutela dei lavoratori anziani”: mi riferisco al pensionamento anticipato con la procedura prevista dall’art. 4, commi da 1 a 7-ter della legge n. 92/2012 (particolarmente onerosa per il datore di lavoro), ed al licenziamento del dipendente per raggiunti limiti di età. La ragione appare evidente in quanto tali soggetti fruiranno del trattamento pensionistico e non “godranno” dell’indennità di disoccupazione.
Fatta questa breve digressione torno all’argomento oggetto della mia riflessione.
L’aumento del contributo a partire dal 1 gennaio 2018 sembra, nella sostanza, una sorta di “reviviscenza” del contributo di mobilità, cancellato lo scorso anno e che, a seconda delle varie situazioni (accordo o non accordo sindacale), variava dalle tre alle nove mensilità del trattamento iniziale di mobilità (art. 5, comma 4, della legge n. 223/1991, ora abrogato). Infatti, prevedendo, quale esempio, il costo da affrontare per un lavoratore licenziato con una anzianità aziendale di almeno trentasei mesi, da gennaio si pagheranno (in mancanza di accordo sindacale) 8.819,70 euro, mentre, fino al 31 dicembre 2016 si pagavano 9.065 euro, in trenta rate mensili, dedotto l’acconto già versato in fase di apertura della procedura.
La sostanziale “reviviscenza” del vecchio contributo per l’ingresso in mobilità è testimoniata anche dal campo di applicazione: come prima, destinatarie risultano essere, come detto pocanzi, soltanto le imprese rientranti tra le potenziali fruitrici dell’integrazione salariale straordinaria.
La “restaurazione”, per, non appare totale, nel senso che, in linea di massima, con la sola eccezione dei lavoratori percettori della relativa indennità nel corso del 2016 ove l’arco temporale di “godimento” era molto più contenuto per effetto della riduzione progressiva attuata dalla legge n. 92/2012, la fruizione della NASPI (con la riduzione del 3% dell’importo a partire dal quarto mese) viene concessa per periodo minore.
Indubbiamente, l’aumento previsto nel disegno di legge si presenta “particolarmente pesante” se posto in relazione al valore che nel corso del 2017 ha avuto il contributo di ingresso alla NASPI: sempre ripetendo gli estremi dell’esempio precedente, in caso di mancato accordo con le organizzazioni sindacali, la somma prevista per il ticket raggiunge la soglia dei 4.409,85 euro, mentre se la riduzione è avvenuta con la condivisione del sindacato trattante, l’importo è pari a 1469,95 euro (dal prossimo anno 2939,90).
Se la questione appena evidenziata si inquadra in una riduzione “corposa” di personale, appare evidente come i “conti” di un imprenditore che ha immaginato tale scelta nel corso dell’anno, si presentino con una “forte sperequazione” rispetto a quanto ipotizzato: ci vale anche in presenza di una possibile soluzione concordata della controversia. D’altra parte cifre così “pesanti” rispetto ai valori dell’anno 2017 dovrebbero spingere a cercare una soluzione concordata agli esuberi, magari con il ricorso ad alcune forme di flessibilità già presenti nel nostro ordinamento o a “lavorare” su altre di prossima emanazione (mi riferisco alla ricollocazione dei lavoratori in Cigs). Da ultimo, un’altra riflessione che scaturisce dalla lettura della relazione di accompagnamento e che riguarda il possibile gettito del contributo “aumentato”. Vengono ipotizzati, per il 2018, circa 60.000 licenziamenti collettivi nelle aziende rientranti in area CiGS: probabilmente, gli effetti positivi della congiuntura economica degli ultimi mesi hanno portato a definire tale numero che è inferiore a quello, nel concreto, realizzatosi negli ultimi anni.
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