Lavoratore che non fa il vaccino covid-19: che fare? [E.Massi]
Una riflessione sull’obbligo del vaccino contro il Covid 19 dei lavoratori e dei datori di lavoro. Una questione che oggi non appare urgente ma che nei prossimi mesi avrà una certa rilevanza
Se in questi giorni si aprono i giornali o se si seguono le trasmissioni televisive, la questione dei lavoratori che rifiutano il vaccino per il COVID-19 acquista sempre più preminenza: va, da subito, precisato che l’argomento, seppur importante, è ancora rimasto sul piano dottrinario, in quanto la vaccinazione, per i conosciuti problemi legati all’approvvigionamento, non è di massa e procede con una certa lentezza. Al momento, la questione, se così la si può chiamare, riguarda essenzialmente il personale sanitario o parasanitario delle strutture pubbliche e private degli ospedali, delle case di cura e delle residenze per anziani.
La riflessione che segue non può che partire, a mio avviso, dal dettato normativo ricordando ciò che afferma l’art. 32 della Costituzione: “nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”.
Questa sarebbe la via maestra da percorrere ma, alla luce dell’attuale momento politico, essa appare abbastanza lontana: mi chiedo se, alla luce della pandemia e dei suoi effetti perniciosi sia sulla salute che sull’economia, l’attuazione della norma costituzionale non sia il “minimum” che si possa richiedere ad un Parlamento.
L’assenza di una tale disposizione fa ricadere sul datore di lavoro una serie di obblighi e problemi non secondari dei quali, francamente, non se ne sente la necessità anche perché, con le disposizioni attuali, ricavabili, principalmente, dal Testo Unico sulla Sicurezza, ci si trova di fronte a difficoltà non preventivabili, a priori, ove, sovente, occorre dare interpretazioni, anche estensive, alle norme che vanno ad interferire su scelte sanitarie e personali che attengono alla sfera dell’individuo. Il tutto, in un quadro nel quale, qualunque decisione venga adottata, lungi dal creare granitiche certezze, porterà, inevitabilmente, a contenziosi di vario genere.
Alla luce di quanto appena detto ritengo, quindi, che ogni ragionamento possa farsi riferendosi unicamente alle disposizioni vigenti partendo da quanto affermato dall’art. 29-bis del D.L. n. 23/2020 il quale stabilisce che l’adempimento ai doveri di sicurezza previsti dall’art. 2087 c.c. avviene attraverso l’adempimento ai protocolli sottoscritti per contrastare la pandemia (innanzitutto, ma non solo, quello del 24 aprile 2020 siglato dal Governo con le parti sociali).
Sono molteplici i lavatori dei settori di “prima linea” che necessiterebbero di vaccinazione pressochè immediata: non mi riferisco, soltanto, al personale sanitario e di supporto presente nelle strutture medico-ospedaliere e nelle Case di riposo, ma anche ai lavoratori che, svolgendo servizi essenziali, sono a continuo contatto con l’utenza più svariata (poliziotti, carabinieri, vigili, personale pubblico di sportello, ecc.). Il giorno 26 gennaio u.s. le associazioni degli albergatori, dei pubblici esercizi, delle agenzie di viaggio, nonché quelle dei settori contigui, unitamente alle organizzazioni sindacali Filcams CGIL, Fisascat CISL e UILTUCS hanno sottoscritto un accordo finalizzato a chiedere al Governo una tempestività nella vaccinazione ed una priorità al settore, in quanto la sicurezza risulta essere un prerequisito per la ripresa. Per garantire il successo della campagna vaccinale, le parti firmatarie si attiveranno per promuovere, tra i lavoratori occupati, iniziative di informazione e sensibilizzazione finalizzate alla vaccinazione contro il COVID-19.
Ma, in assenza di un obbligo legale, il datore di lavoro che si troverà ad affrontare il problema del rifiuto vaccinale, ha un percorso alternativo da percorrere?
Entrando nella disamina delle varie questioni, credo che qualcuna possa essere dipanata attraverso la lettura di alcuni articoli del D.L.vo n. 81/2008 e, segnatamente, il 266 e seguenti e il 279.
Qui, ci riferisce alle attività lavorative nelle quali si presenta un rischio biologico (art. 266), qui, viene identificato l’agente biologico che è qualsiasi microrganismo, anche se geneticamente modificato, coltura cellulare ed endoparassita umano che potrebbe provocare infezioni, allergie e intossicazioni (art. 267), qui c’è la classificazione degli agenti biologici a seconda della gravità che, nel rischio più elevato (art. 268, comma 1, lettera d) può ben riferirsi al rischio COVID.
Le disposizioni sopra richiamate impongono al datore di lavoro la necessità di inserire nel DUVRI il nuovo rischio con la messa a disposizione degli strumenti atti a frenarne la diffusione, ivi compresa la vaccinazione che non dipende dallo stesso, ma inserendo un obbligo dal momento in cui ci sarà la chiamata, per i singoli lavoratori, da parte delle strutture sanitarie pubbliche: ciò che, però, al momento non può fare è quello di comprare i vaccini (l’acquisto da parte dei privati non c’è) e, in quanto strumento di prevenzione del rischio, esercitare la previsione dell’art. 279, comma 2, lettera a), ossia “la messa a disposizione di vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico, da somministrare a cura del medico competente”. La stessa disposizione, alla successiva lettera b) ricorda che il medico competente, con la procedura prevista dall’art. 42, può allontanare il lavoratore dalla propria postazione per inidoneità alla mansione ma ricorda anche, al successivo comma 5, che “il medico competente fornisce ai lavoratori adeguate informazioni …… sui vantaggi ed inconvenienti della vaccinazione e non vaccinazione”: solo informazioni, recita la norma, e non altro.
Prima di entrare nel merito del “che fare?” riferito agli altri lavoratori credo che sia opportuno soffermarsi sui dipendenti delle strutture sanitarie e parasanitarie ai quali l’offerta del vaccino pubblico è stata già fatta e che, per svariate ragioni, hanno rifiutato di sottoporsi allo stesso.
Il medico competente, alla luce dei poteri conferitigli dall’art. 41, nell’ambito delle visite periodiche, è tenuto ad esprimere il proprio giudizio in relazione alla mansione specifica ed accertare se, come sembra, la mancata vaccinazione si configuri come una inidoneità permanente allo svolgimento delle stesse, atteso che esse si svolgono in contatto continuo con malati e con persone altamente fragili. Il datore di lavoro, una volta ricevuta la comunicazione del medico che, certamente, nel proprio giudizio avrà tenuto conto anche di eventuali cause impedienti legate alla salute dei lavoratori che non hanno inteso vaccinarsi, nel rispetto della previsione contenuta nel successivo art. 42, “attua le misure indicate dal medico competente e qualora le stesse prevedano una inidoneità specifica alle mansioni adibisce i soggetti interessati, ove possibile, a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza”.
A me sembra, sempre riferendomi al caso di specie, che ci siano poche possibilità di utilizzare i lavoratori contrari al vaccino in una postazione lontana oltre che da malati anche da altri lavoratori: si potrebbe pensare ad una sorta di telelavoro integrale (più che smart working che postula, ex art. 18 della legge n. 81/2017, una prestazione che si svolge in parte fuori dal perimetro aziendale ed in parte dentro) ma, francamente, non si comprende come esso possa essere svolto “da remoto” se la mansione contempla l’assistenza di persone malate. La soluzione definitiva, nel caso appena delineato, potrebbe essere, una volta esauriti gli strumenti legali e contrattuali come le ferie ed i permessi, quella dell’aspettativa non retribuita, attesa la impossibilità di rendere la prestazione o, in alternativa, del licenziamento per giustificato motivo oggettivo ex art. 3 della legge n. 604/1966 determinato dal pregiudizio alla organizzazione del lavoro (recesso, al momento, sospeso fino al 31 marzo 2021, per effetto del comma 309 dell’art. 1 della legge n. 178/2020).
È, come si vede, una strada tortuosa ed irta di difficoltà che potrebbe, in ultima analisi, portare, nel caso della impugnazione del recesso, ad un pronunciamento, non scontato, d parte del giudice di merito.
Il discorso si presenta in maniera analoga anche per altre aziende ove, tuttavia, la particolare forma di organizzazione potrebbe portare ad un uso maggiore del lavoro da “remoto”: è auspicabile che, in assenza dell’obbligo legale che, ripeto, rappresenterebbe la “via maestra” da seguire, venga prevista una sorta di certificazione sanitaria, attestante la vaccinazione assolta, come hanno preannunciato alcune Regioni.
Nei prossimi mesi, quando, la vaccinazione diverrà massiva, l’aver fatto o meno il vaccino potrebbe rientrare, come elemento di valutazione, nelle assunzioni di personale da parte delle aziende o di richiesta alle Agenzie di somministrazione di inviare in missione soltanto lavoratori in regola con tale incombenza, atteso che gli stessi dovranno essere in contatto con altre persone o terzi che frequentano l’unità produttiva.
È legittimo tutto questo?
Sono questioni delicate che soltanto una previsione legale che contempli, comunque, la possibilità del rifiuto correlata a situazioni mediche di particolari gravità, potrebbe risolvere.
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2 Commenti
ROSS73
Agosto 09, 11:28COME COMPORTARSI NELLA FATTISPECIE CONTRARIA? TITOLARE DI ATTIVITA’ APERTA AL PUBBLICO, CHE NON INTENDE SOTTOPORSI AL VACCINO….QUANDO TUTTI I DEPENDENTI LO HANNO FATTO?
Eufranio Massi
Novembre 09, 10:16Le norme che hanno come riferimento, essenzialmente, il decreto legislativo n. 81/2008 fanno riferimento alla tutela ed alla sicurezza dei lavoratori in azienda ed agli obblighi che gravano sul datore di lavoro.
Per quel che riguarda quest’ultimo non essendoci, finora, un obbligo di vaccinazione, dovrà utilizzare tutte le cautele possibili (distanziamento dai lavoratori e dalla clientela, utilizzo degli strumenti di protezione, ecc.). Se non lo farà potrebbe essere oggetto di sanzioni amministrative da parte degli organismi di salute pubblica (polizia, carabinieri, ecc.).
Dott. Eufranio Massi