La sentenza n. 194 della Corte Costituzionale: gli effetti diretti ed indiretti sulla risoluzione dei rapporti di lavoro [E.Massi]
“L’indennità di risarcimento per licenziamento illegittimo, stabilita dal Jobs act, è incostituzionale, perché lede i principi di ragionevolezza e di uguaglianza”. Per la Corte Costituzionale il meccanismo di calcolo è incostituzionale. Non è possibile basare l’importo risarcitorio esclusivamente in funzione dell’anzianità di servizio.
Lungamente attesa, dopo il comunicato del 26 settembre 2018, è stata depositata, nella giornata dell’ 8 novembre u.s., la sentenza n.194 della Corte Costituzionale con la quale, al termine di una decisione molto articolata ed approfondita, è stata dichiarata la illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del D.L.vo n. 23/2015, sia nel testo originario che in quello modificato dal D.L. n. 87/2018 convertito, con modificazioni, nella legge n. 96, limitatamente alle parole “di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”.
Senza entrare nel merito delle altre questioni sollevate davanti alla Consulta e definite infondate o inammissibili, ritengo opportuno soffermarmi sulla sola decisione relativa alla incostituzionalità rilevata.
Tale decisione colpisce il concetto di risarcimento proporzionato alla sola anzianità aziendale, laddove il lavoratore, assunto con le c.d. “tutele crescenti”, viene licenziato illegittimamente: tale disposizione viola i principi di eguaglianza e di ragionevolezza ed investe, come detto, anche il D.L. 12 luglio 2018, n. 87, successivamente modificato, a partire dal 12 agosto successivo, dalla legge di conversione n. 96, che era intervenuto, in maniera significativa, sulla disciplina dei contratti a tempo determinato, sulla somministrazione e sull’indennità risarcitoria in materia di licenziamenti illegittimi. Su quest’ultimo argomento, che rappresenta il punto focale di questa riflessione, il Legislatore, senza toccare i principi cardine del D.L.vo n. 23/2015 (indennità risarcitoria legata all’anzianità aziendale e nessun potere al giudice di determinare l’importo della stessa, dovendosi, lo stesso rimettere al “quantum” già stabilito dalla norma), aveva provveduto ad aumentare gli importi che, pur restando fissati, nelle imprese con oltre quindici dipendenti, a due mensilità all’anno calcolate sulla retribuzione utile per il calcolo del TFR, aveva elevato l’importo minimo a sei mensilità con un tetto massimo fissato a trentasei. Parimenti, nelle piccole imprese e nelle c.d. “associazioni di tendenza” (fondazioni, associazioni sindacali, ecc.) i valori predetti erano stati confermati nella metà degli importi con un tetto predeterminato in sei mensilità.
Il quadro regolatorio cambia radicalmente in quanto la Consulta afferma che la indicazione del solo criterio della anzianità di servizio, seppur importante, può causare vari pregiudizi in quanto le situazioni dei singoli lavoratori sono diverse e variegate: esso non può ritenersi esclusivo ma è necessario che il giudice (e qui è “toccato” un principio fondamentale del D.L.vo n. 23/2015 secondo il quale a quest’ultimo era affidato soltanto il compito di giudicare la legittimità o meno del recesso) deve tener conto di altri fattori ugualmente importanti. Il criterio della sola anzianità aziendale (due mensilità all’anno, pur partendo da una base di quattro – o sei come recita la disposizione contenuta nel D.L. n. 87/2018) appare assolutamente insufficiente a compensare il pregiudizio subito dal lavoratore licenziato, soprattutto nella ipotesi in cui il rapporto a tempo indeterminato abbia avuto una breve durata. La Consulta parla di inadeguatezza che discende non tanto dalla fissazione di limiti minimi o massimi indicati, da ultimo dal Legislatore, in sei e trentasei mensilità, ma dal fatto che sussiste un collegamento rigido ed unico con l’anzianità di servizio.
Il giudice, osserva la Corte, deve tener conto anche di altri fattori, consolidati nel nostro ordinamento e che vengono, da tempo, esplicitati nell’art. 8 della legge n. 604/1966 e nell’art. 18, comma 5, della legge n. 300/1970 e che fanno riferimento al numero dei dipendenti dell’azienda, alle dimensioni dell’attività economica al comportamento tenuto dalle parti nel corso della controversia ed alle loro condizioni.
La decisione che ha affrontato, respingendole, anche altre questioni sollevate dal giudice remittente di Roma, ha dichiarato la parziale incostituzionalità dell’art. 3, comma 1, del D.L. n. 23/2015 (in correlazione sia al principio di eguaglianza, sotto il profilo della ingiustificata omologazione di situazioni diverse, sia al principio di ragionevolezza), in relazione agli articoli 3, 4, primo comma, 35, primo comma, 76 e 117, primo comma, della Costituzione (gli ultimi due articoli in relazione all’art. 24 della Carta Sociale Europea). Il richiamo a tale ultima disposizione comunitaria viene ritenuto rilevante in quanto la stessa riconosce il diritto dei lavoratori licenziati senza una valida motivazione a vedersi riconoscere un congruo indennizzo.
La decisione della Corte Costituzionale potrà portare ad un meccanismo che, sulla base delle motivazioni addotte dal giudice nella propria sentenza, in perfetta attuazione dei principi richiamati, da ultimo, nell’art. 18, comma 5, della legge n. 300/1970, potrebbe portare a risarcimenti differenti anche per situazioni che, sotto l’aspetto sostanziale, sono simili.
Al contempo, voglio sottolineare un altro fatto: si potrebbe avere, in caso di licenziamento illegittimo per giustificato motivo oggettivo, nelle imprese con più di quindici dipendenti, una indennità maggiore per un assunto “con le tutele crescenti” (fino a trentasei mesi) che pur un lavoratore assunto prima del 7 marzo 2015 (fino a ventiquattro mesi).
Per completezza di informazione ricordo come, per effetto della previsione contenuta nell’art. 1 del D.L.vo n. 23/2015 rientrino nel campo di applicazione correlato alla indennità risarcitoria:
- Tutti gli assunti (operai, impiegati e quadri ma non i dirigenti) a partire dal 7 marzo 2015;
- I lavoratori delle piccole imprese e delle associazioni di tendenza che, pur assunti prima della predetta data, hanno visto salire l’organico dimensionale del proprio datore di lavoro oltre la soglia delle quindici unità;
- I lavoratori con contratto a tempo determinato, assunti prima del 7 marzo 2015, ma il cui rapporto si è convertito a tempo indeterminato dopo tale data. In ordine a tale concetto va tenuta presente una recente ordinanza del Tribunale di Roma (la n. 75870/2018) con la quale, affrontando l’esame di un licenziamento disciplinare di un lavoratore assunto a termine il 20 ottobre 2014 e, successivamente, trasformato a tempo indeterminato dopo il 7 marzo del 2015, che ha deciso che non è applicabile il comma 2 dell’art. 1 (tutele crescenti) ma l’art. 18 della legge n. 300/1970, in quanto la disposizione, che parla soltanto di “conversione” e non di “trasformazione”, non può applicarsi a quelle situazioni ove il rapporto di lavoro a tempo indeterminato nasce da una volontarietà del datore di lavoro (nel caso di specie, sulla spinta dell’incentivo triennale della legge n. 190/2014). La “conversione” di cui parla il Legislatore farebbe riferimento a un rapporto che diviene a tempo indeterminato “in modo forzato”, in quanto affetto da nullità. Ovviamente, si tratta di una decisione di merito che potrebbe trovare un diverso indirizzo in altri gradi di giudizio o presso altre sedi;
- Gli assunti con contratto di apprendistato professionalizzante prima del 7 marzo 2015 ma che hanno visto il proprio rapporto “consolidato” al termine del periodo formativo.
La decisione non “tocca” il valore dell’indennità risarcitoria relativa licenziamenti operati dai datori di lavoro con un organico inferiore alle sedici unità e dalle “associazioni di tendenza” ove i nuovi importi, strettamente legati all’anzianità aziendale, sono ora, dopo le modifiche intervenute, pari ad una mensilità all’anno calcolata sull’ultima retribuzione utile ai fini del calcolo del TFR, partendo da una base di tre, fino a sei mensilità: ovviamente, in questi casi, l’indennità risarcitoria, tra il minimo ed il massimo, sarà essere oggetto di decisione da parte del giudice alla luce dei criteri appena richiamati e che risultano ben specificati dall’art. 8 della legge n. 604/1966. La misura massima può essere maggiorata fino a dieci mensilità se l’anzianità di servizio del prestatore è superiore ai dieci anni ed a quattordici se il lavoratore è dipendente da oltre venti anni, se dipendenti da un datore che occupa più di quindici unità.
È appena il caso di sottolineare come la decisione della Corte Costituzionale riguardi soltanto il comma 1 dell’art. 3: ciò significa che gli assunti con le “tutele crescenti” continueranno a fruire della reintegra nelle ipotesi previste dall’art. 2 (licenziamento nullo per violazione di legge, discriminatorio, orale o ritorsivo, per mancanza del motivo nei confronti dei portatori di handicap o nel recesso disciplinare – art. 3, comma 2 – allorquando nel giudizio venga dimostrata la insussistenza del fatto materiale contestato al dipendente).
La dichiarazione di incostituzionalità, avrà effetto anche sui licenziamenti collettivi ex art. 10 concernenti i lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015. Per costoro, l’applicazione, pedissequa, dei valori risarcitori, determinati con il criterio dell’anzianità, salta e, di conseguenza, fermo restando che per i lavoratori assunti prima della data sopraindicata e con una decisione di reintegra (perché, ad esempio, sono stati errati i criteri di scelta), c’è la reintegra, con il pagamento delle retribuzioni e della contribuzione dal momento della cessazione fino al rientro, con la possibilità per gli stessi di esercitare il c.d. “opting out” (risoluzione del rapporto) previo pagamento di quindici mensilità, per gli altri il giudice definirà l’importo risarcitorio all’interno della “forbice” compresa tra le sei e le trentasei mensilità.
Le novità si riverbereranno anche sull’art. 7 del D.L.vo n. 23/2015 ove il criterio della liquidazione dell’indennità spettante al lavoratore per licenziamento illegittimo è legata all’anzianità acquisita nell’appalto (e non presso l’ultimo datore): tale criterio, essendo l’unico, potrà essere integrato, nella valutazione del giudice dagli altri che fanno riferimento sia all’art. 8 della legge n. 604/1966 che all’art. 18, comma 5, della legge n. 300/1970.
C’è, poi, un’altra questione, forse secondaria, da esaminare: mi riferisco a quelle situazioni ove, vuoi per effetto di trattative sindacali collettive, si è convenuto, in sede aziendale, di derogare alle “tutele crescenti” e di richiamare, anche per i nuovi assunti, le tutele ante 7 marzo 2015: tali accordi conservano, fino alla eventuale scadenza, la loro efficacia. La questione si pone anche per coloro che, individualmente, all’atto della loro assunzione (magari perché personale altamente qualificato) hanno “spuntato” misure di tutela più convenienti (reintegra o maggiorazione notevole dell’indennità risarcitoria) rispetto a quelle allora previste dall’art. 3, comma 1, del D.L.vo n. 23/2015.
Il deposito della sentenza, consente la ripresa dei procedimenti giudiziari pendenti non soltanto in primo grado ma anche in appello sospesi, in via cautelativa, da molti presidenti delle sezioni Lavoro, pur se, in una sede (mi riferisco al Tribunale di Bari) con una ordinanza “costituzionalmente orientata” si è inteso anticipare, nella prima decade di ottobre u.s., i contenuti della decisione della Consulta, prima del deposito della stessa, liquidando l’indennità risarcitoria nella misura delle dodici mensilità invece delle sei previste a seguito del D.L. n. 87/2018.
Ora si porranno, prevedibilmente alcune questioni procedurali non secondarie, come quella relativa alla indicazione, da parte del lavoratore ricorrente, di una serie di elementi ulteriori finalizzati alla quantificazione dell’indennità. Se questi sono stati già evidenziati nel ricorso non c’è problema ma se ciò non è avvenuto (perché non necessari ai fini della vecchia normativa) potranno essere dedotti dal momento che viene esclusa la possibilità di indicare, nel processo, nuove circostanze o prove?
E chi ha chiesto la condanna del datore di lavoro al pagamento della indennità già predeterminata ex art. 3, comma 1, potrà modificare la domanda alla luce della sentenza della Corte Costituzionale?
Gli effetti della decisione della Corte Costituzionale si riverbereranno anche sull’offerta conciliativa facoltativa ex art. 6, comma 1, del D.L.vo n. 23/2015 in quanto gli importi, seppur non soggetti a tassazione IRPEF, per quanto aumentati con la legge di conversione n. 96, perdono il loro “gradimento” in quanto il lavoratore, assunto con le “tutele crescenti” da un impresa con più di quindici dipendenti, in caso di ricorso al giudice del lavoro non sarà più legato al mero criterio dell’anzianità aziendale (il valore, in caso di conciliazione, risulta “strutturato” sulla metà degli importi previsti ex art. 3, comma 1, pur se esenti da IRPEF), in quanto, prevedibilmente, potrebbe ottenere un importo di molto superiore a quello ora previsto dalla norma. Tale mancanza di “appeal” si rifletterà negativamente sull’effetto deflattivo del contenzioso ed, inoltre, i datori di lavoro difficilmente, potranno “chiudere” con i lavoratori interessati altre questioni afferenti l’intercorso rapporto di lavoro (straordinari contestati, differenze paga, competenze di fine rapporto, ecc.) che, possono essere risolte “a latere” con un altro accordo che “si realizza” accanto a quello principale.
La sentenza n. 194 non tocca, “il gradimento” per gli importi, di molto minori, previsti per la conciliazione facoltativa presso i piccolo datori di lavoro e le associazioni di tendenza, atteso che le differenze economiche restano minime e la possibilità di ottenere il “quantum” esente da IRPEF subito, senza attendere l’alea del giudizio, conserva il proprio “appeal”.
Considerazioni finali
Negli ultimi due mesi, per effetto prima dei contenuti del D.L. n. 87/2018 in materia di contratti a tempo determinato e di somministrazione a termine e, poi, della sentenza n. 194 della Consulta, il diritto del lavoro ha subito profondi cambiamenti.
L’idea centrale contenuta in diversi provvedimenti del c.d. “Jobs act”, secondo la quale le assunzioni a termine, senza l’apposizione di alcuna causale, per un periodo massimo di trentasei mesi (ma la contrattazione collettiva poteva – e può – individuarne anche uno maggiore) con la successiva possibile trasformazione a tempo indeterminato, magari accompagnata da corposi incentivi (si pensi, all’esonero triennale, a quello biennale ed al comma 107 dell’art. 1 della legge n. 205/2017) e la possibilità, comunque, con la sola eccezione della casistica individuata all’art. 2 del D.L.vo n. 23/2015, di poter procedere al recesso con un “costo certo”, perché legato alla mera anzianità aziendale, è “sostanzialmente andata in soffitta”.
Il contratto a tempo determinato, senza alcuna causale, può durare, al massimo, dodici mesi e le condizioni legali necessarie per una prosecuzione fino a ventiquattro mesi, senza alcuna possibilità per le parti sociali di prevederne di diverse, appaiono di difficile applicazione (ad eccezione di quelle di natura sostitutiva). Ciò imporrà strategie diverse a quelle imprese che, magari, puntando sulla formazione in azienda, avevano un tempo diverso e più lungo per operare le loro scelte. Ciò potrebbe portare, in molteplici ipotesi ad un “turn over della precarietà”, con lavoratori che si avvicendano ogni dodici mesi all’interno delle strutture aziendali. Le stesse scelte operate con la somministrazione a termine non aiutano.
La sentenza della Corte Costituzionale, ritenendo incostituzionale il solo criterio dell’anzianità ai fini della determinazione dell’indennità risarcitoria, fa venir meno il “costo certo” del licenziamento, dipendendo lo stesso dalle valutazioni, ben motivate, di un giudice terzo (ed ora, l’ampiezza della valutazione tra sei e trentasei mensilità appare, obiettivamente, alta se rapportata a quella inserita nell’art. 18 della legge n. 300/1970, dopo la riforma avvenuta con la legge n. 92/2012).
Quanto appena evidenziato potrebbe esplicare effetti alquanto “pesanti” nei confronti di quei datori di lavoro che, approfittando anche delle norme agevolatrici, hanno superato, sia pure di poco, la soglia fatidica dei quindici dipendenti e che, solo per tale ragione, sono passati da una indennità che, al massimo, può raggiungere le sei mensilità fino a quella nuova ove il tetto (non più raggiungibile con la sola anzianità aziendale) viene fissato in trentasei mensilità.
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