La prescrizione dei crediti retributivi per gli assunti con contratto a tutele crescenti [E.Massi]
Un aspetto, strettamente correlato ai contenuti del D.L.vo n. 23/2015 ma poco “attenzionato” nei primi commenti degli operatori, è quello della prescrizione dei crediti retributivi dei lavoratori.
Prima di entrare nel merito delle questioni credo che sia opportuno fare una breve ricognizione dell’istituto, quale si è venuto sviluppando e consolidando, nel corso degli anni, nel solco tracciato dalle sentenze della Corte Costituzionale e della Cassazione.
Il trascorrere del tempo, infatti, può portare alla perdita dei diritti di cui un lavoratore è portatore per effetto di una mancata rivendicazione. La prescrizione dei crediti retributivi (art. 2946, 2948, 2955 e 2956, c.c.) può, quindi, determinare la perdita di un diritto acquisito, atteso che regola generale è che tutti i diritti derivanti dal rapporto di lavoro debbono esser richiesti ed esercitati entro un certo periodo.
La maggior parte dei crediti, come quelli di natura retributiva corrisposti con una periodicità annuale od inferiore, compresi gli eventuali interessi, soggiacciono alla prescrizione estintiva quinquennale (art. 2948, n. 4 e 5, c.c.): tra essi sono, senz’altro, da ricomprendere, le retribuzioni, lo straordinario (Cass., 20 gennaio 2010, n. 947), il pagamento delle festività lavorate nazionali e di qualsiasi altro credito di lavoro (Cass., 10 novembre 2004, n. 21377) e secondo l’orientamento della Suprema Corte le indennità spettanti per la cessazione del rapporto di lavoro, come il TFR (Cass., 13 novembre 2001, n. 14091) e l’indennità sostitutiva del preavviso (Cass., 22 giugno 2004, n. 15798).
In materia di decorrenza dei termini per l’esercizio dei diritti si sono occupate, in passato più volte, come dicevo, sia la Consulta che la Corte di Cassazione, partendo da una decisione del primo organo, la n. 63 del 10 giugno 1966, con la quale si sostenne (e all’epoca si trattava di un indirizzo “rivoluzionario”) che i termini decorrevano dalla cessazione del rapporto di lavoro, in quanto il lavoratore, in costanza di rapporto, si trovava in una condizione di sudditanza psicologica che si concretizzava “nel timore del recesso, cioè del licenziamento che spinge o può spingere lo stesso sulla via della rinuncia ad una parte dei propri diritti”.
Tale regola del differimento fu, poi, soggetta a correzioni per effetto della entrata in vigore nel nostro ordinamento sia della legge n. 604/1966 che dell’art. 18 della legge n. 300/1970, fino a giungere alla sentenza n. 174 del 12 dicembre 1972 ove, per la prima volta, fu decisa la questione, risolta in senso positivo, se a fronte di una tutela legislativa “garantista”, non fosse venuto meno il fondamento giuridico che aveva portato, con la decisione n. 63/1966, a posticipare il decorso dei termine alla fine del contratto di lavoro. La conclusione a cui si giunse fu che il differimento dei termini poteva applicarsi ogni qual volta “che il rapporto di lavoro subordinato fosse caratterizzato da una particolare forza di resistenza la quale deriva da una disciplina che assicuri normalmente la stabilità del rapporto e fornisca la garanzia di appositi rimedi giurisdizionali contro ogni illegittima risoluzione”.
Tale orientamento fu sposato dalle Sezioni Unite della Cassazione (Cass., S.U., 12 aprile 1976, n. 1268) e confermato da sentenze successive. Esse affermarono che la decorrenza della prescrizione ordinaria quinquennale “non è unica per qualsiasi rapporto di lavoro ma dipende dal grado di stabilità del rapporto stesso, ritenendosi stabile ogni rapporto che, indipendentemente dal carattere pubblico o privato del datore di lavoro, sia regolato da una disciplina la quale sul piano sostanziale subordini la legittimità e l’efficacia della risoluzione alla sussistenza di circostanze obiettive e predeterminate e, sul piano processuale, affidi al giudice il sindacato su tali circostanze e la possibilità di rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo”.
Di conseguenza e limitando la riflessione alla prescrizione quinquennale e tralasciando quella decennale per crediti aventi natura risarcitoria (ad esempio, integrità psico – fisica del lavoratore), o quella annuale (ad esempio, paga settimanale), si può, nella sostanza, affermare che per parte dei lavoratori (assunti fino al 6 marzo 2015) la prescrizione dei crediti di lavoro si prescriva, nel quinquennio dalla loro maturazione, in costanza di rapporto di lavoro, qualora lo stesso sia tutelato dall’art. 18, sia pure riformato dalla legge n. 92/2012, mentre per i lavoratori rientranti nell’ambito della c.d. “tutela obbligatoria”, ove il recesso illegittimo (fatti salvi i casi di nullità o di discriminazione) viene “ristorato” da una indennità di natura economica, il termine decorre dalla cessazione del rapporto.
Le premesse che hanno accompagnato questa breve riflessione sono state necessarie per comprendere come il quadro di riferimento, relativo ai lavoratori ai quali si applica il D.L.vo n. 23/2015, sia profondamente cambiato.
La tutela reale prevista dall’art. 18 (fatte salve le ipotesi residuali previste dall’art. 2 ed il licenziamento disciplinare per fatto materiale insussistente) non c’è più, essendo stata sostituita in caso di licenziamento illegittimo per giustificato motivo o giusta causa da una indennità monetaria pari a due mensilità dell’ultima retribuzione utile ai fini del calcolo del TFR per ogni anno di anzianità aziendale, partendo da una base di quattro, fino ad un massimo di ventiquattro mensilità (per i datori di lavoro dimensionati fino a quindici dipendenti e per le associazioni di tendenza gli importi sono ridotti della metà con un tetto fissato a sei mensilità).
Da quanto appena detto, a mio avviso, non essendo più garantita la stabilità “reale”, ovviamente riconoscibile attraverso il giudizio, il decorso dei termini della prescrizione quinquennale (in assenza di uno specifico intervento normativo) non potrà che decorrere, per tutti i lavoratori assunti nel settore privato a partire dal 7 marzo 2015, a partire dalla cessazione del rapporto di lavoro e non più, per i soli dipendenti occupati a tempo indeterminato nelle imprese con un organico superiore ai quindici dipendenti, in costanza di rapporto di lavoro, con un sostanziale “allungamento temporale” per presentare le proprie rivendicazioni.
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1 Commenti
giovanna
Maggio 27, 08:49buongiorno Dott. Massi mi perdoni Le pongo un quesito che esula dal Suo prezioso scritto, allo studio abbiamo il caso di un’azienda (cliente) a cui è stata notificato sentenza di separazione di un dipendente, come di consueto è stato disposto che il datore di lavoro del dipendente corrisponda all’ex coniuge un importo X. A suo avviso il cedolino da trasmettere all’ex coniuge deve essere vidimato? Da un’attenta lettura delle disposizioni in materia di Lul nulla viene disposto. La ringrazio per l’attenzione Le auguro buona giornata.