Il tentativo obbligatorio di conciliazione nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo [E.Massi]
La fine del “blocco” dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo che per le aziende che rientrano nel campo di applicazione della CIGO e la ripresa della procedura di conciliazione obbligatoria per i licenziamenti individuali
Con l’approssimarsi della fine del “blocco” del licenziamento per giustificato motivo oggettivo che per le aziende che rientrano nel campo di applicazione della CIGO ( le imprese sono indicate all’art.10 del D.L.vo n. 148/2015) e che termina il 30 giugno p.v., riprenderà anche la procedura relativa al tentativo di conciliazione obbligatorio per i licenziamenti individuali per motivi economici disciplinato dall’art. 7 della legge n. 604/1966. Esso era stato sospeso per tutti i datori di lavoro interessati a partire dal 17 marzo 2020: la ripresa è, come si vede, parziale, in quanto per le altre aziende che presentano i requisiti soggettivi per essere interessate dalla procedura, la fine del blocco è posticipata di quattro mesi (31 ottobre 2021).
La novità introdotta con l’art. 8, comma 9, del D.L. n. 41/2021, si cala in una realtà operativa ove le parti che interesseranno gli Ispettorati territoriali del Lavoro e le commissioni provinciali di conciliazione istituite ex art. 410 cpc, si vedranno, probabilmente, offrire, complice la pandemia tuttora presente nel nostro Paese, una modalità procedurale “da remoto” che appare abbastanza macchinosa e che poco si correla alla speditezza dell’iter postulato dal Legislatore del 2012. Tale possibilità, sotto l’aspetto normativo è stata sancita dal comma 2 dell’art. 12-bis della legge n. 126/2020, dal conseguente Decreto applicativo n. 56/2020 del “Capo” dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro e dalla circolare successiva n. 4 del 25 settembre 2020.
Ma, andiamo con ordine, cercando di focalizzare una serie di questioni, sorte nel corso della applicazione della procedura nel periodo trascorso.
Le questioni relative al licenziamento individuale per motivi economici (art. 3 della legge n. 604/1966) e, soprattutto, le procedure da seguire, sono, da sempre, oggetto di riflessione tra gli addetti ai lavori, in quanto diverse sono le regole che trovano applicazione.
Il Ministero del Lavoro con la circolare n. 3 del 16 gennaio 2013 fornì le indicazioni operative in ordine alla procedura obbligatoria di conciliazione concernente il licenziamento per giustificato motivo oggettivo dopo le novità introdotte con la legge n. 92/2012 che con il comma 40 dell’art. 1, ha riformato l’art. 7 della legge n. 604/1966: successivamente, sono giunte alcune precisazioni che, tuttavia, non hanno intaccato l’analisi e gli orientamenti amministrativi contenuti nella nota originaria.
Vale la pena di ricordare come altre soluzioni, siano previste per imprese con limiti dimensionali inferiori a quelli indicati dal Legislatore (organico dimensionato sotto le quindici unità o datori di lavoro con lavoratori assunti attraverso le c.d. “tutele crescenti” per i quali, a prescindere dal numero dei lavoratori in forza, si applica, il tentativo di conciliazione facoltativa previsto dall’art. 6 del D.L.vo n. 23/2015.
Proprio riferendosi a tale ultima ipotesi è bene ricordare che la procedura ex art. 7 non riguarda gli assunti dai datori di lavoro a partire dal 7 marzo 2015, data di entrata in vigore del predetto Decreto, per i quali la norma ha abrogato il tentativo obbligatorio di conciliazione ed ha previsto, soltanto, la possibilità dell’offerta conciliativa, secondo l’iter procedimentale contenuto nell’art. 6. Essa, tuttavia, dopo la decisione della Consulta n. 194 dell’8 novembre 2018, con la quale è stata dichiarata l’incostituzionalità dell’art. 3, comma 1, nella parte in cui correla l’indennità risarcitoria al solo requisito, seppur importante, dell’anzianità aziendale, ha perso molto del precedente “appeal”, soprattutto nelle imprese che occupano più di quindici dipendenti. Infatti, mentre, in precedenza il lavoratore poteva ottenere con la conciliazione, subito, una somma, ad accettazione del licenziamento, pari al 50% di ciò che avrebbe ottenuto andando in giudizio (l’esenzione dall’IRPEF e la mancanza di spese legali facevano lievitare l’importo), ora, il fatto che il giudice possa integrare la predetta indennità correlata all’anzianità con i criteri evidenziati dall’art. 8 della legge n. 604/1966 (numero dei dipendenti, contesto socio economico, comportamento tenuto dalle parti, ecc.) e che l’ammontare della stessa venga definito, dopo le modifiche introdotte con il D.L. n. 87/2018, tra un minimo di sei mensilità ed un massimo di trentasei calcolate sull’ultima retribuzione utile ai fini del TFR, rendono la via del giudizio più appetibile per il lavoratore. A completamento di quanto appena detto, va sottolineato come nelle piccole imprese i valori risarcitori, anche in caso di giudizio, non possono superare le sei mensilità e che su questo argomento è pendente un giudizio presso la Corte Costituzionale.
Per completezza di informazione, va ricordato come la Consulta, con la sentenza n 59 depositata il 1° aprile 2021, abbia ritenuto illegittimo l’art. 18, comma 7, secondo periodo, della legge n. 300/1970 nella parte in cui, in caso di insussistenza del motivo in un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, lascia al giudice l’alternativa di decidere tra reintegra nel posto di lavoro e corresponsione di una indennità risarcitoria. Secondo la Corte Costituzionale tale potere in capo al giudice non deve sussistere e, in caso di insussistenza della fattispecie, va disposta la reintegrazione. Tale decisione, è bene rimarcarlo, non ha alcun effetto sulla procedura di conciliazione che rappresenta un momento assolutamente esterno al licenziamento (anzi, è del tutto precedente) in quanto l’iter si instaura, con un rapporto ancora sussistente, con la richiesta del datore finalizzata alla intimazione di un recesso per motivi economici.
Tornando all’argomento principale di questa riflessione vanno individuati i lavoratori che, per effetto delle previsioni normative, sono esclusi dalla procedura obbligatoria. Non vi rientrano:
- a) I dirigenti, ai quali non si applica l’art. 3 della legge n. 604/1966. Per completezza di informazione ricordo, tuttavia, che con una sentenza del 26 febbraio 2021 il Tribunale di Roma, fornendo una lettura costituzionalmente orientata, ha ritenuto che il “blocco dei licenziamenti economici” stabilito dalla decretazione di urgenza varata nel corso del 2020, riguardasse anche tali lavoratori, pur se non rientranti nell’ambito di applicazione dell’art. 3. Tale decisione, a mio avviso, non ha, comunque, effetti sulla disciplina del tentativo obbligatorio ;
- b) I lavoratori licenziati per superamento del periodo di comporto ex art. 2110 c.c., grazie ad un chiarimento avvenuto con una disposizione aggiunta nel “corpus” dell’art. 7 dal D.L. n. 76/2013, dopo che, nel merito vi erano stati orientamenti difformi tra i giudice;
- c) I lavoratori licenziati al termine di un appalto, laddove clausole di origine legale (ad esempio, l’art. 50 del c.d. “codice degli appalti pubblici”) o contrattuale (ad esempio, l’art. 4 del CCNL multiservizi) abbiano previsto un loro reimpiego presso il nuovo appaltatore o in edilizia al termine del cantiere o per fine fase lavorativa (art. 2, comma 34, della legge n. 92/2012);
- d) I lavoratori, assunti con contratto a tempo determinato prima del 7 marzo 2015, il cui rapporto sia stato convertito dopo tale data (art. 1, comma 2, del D.L.vo n. 23/2015). Il Tribunale di Roma, con sentenza n. 383/2019, ha distinto tale ipotesi da quella della trasformazione ove le tutele da applicare restano quelle dell’art. 18 della legge n. 300/1970;
- e) I lavoratori assunti con contratto di apprendistato entro il 6 marzo 2015 il cui rapporto sia stato consolidato al termine del periodo formativo (art. 1, comma 2, del D.L.vo n. 23/2015);
- f) I lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 da aziende il cui requisito dimensionale, al momento dell’assunzione, non integrava le ipotesi previste dai commi 8 e 9 dell’art. 18, ma che, per effetto, delle nuove assunzioni, hanno superato tali soglie (art. 1, comma 3, del D.L.vo n. 23/2015).
Passo, ora, ad entrare nel merito di quanto affermato, in via amministrativa, con la circolare n. 3.
Le prima impressione che si trae dalla lettura è quella di un chiarimento amministrativo abbastanza puntuale che richiama, in diversi punti, le articolazioni periferiche dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro ad adempimenti veloci e, se possibile, in linea con la volontà del Legislatore che ha declinato questo iter con lo scopo di “sgravare”, nei limiti del possibile, la Magistratura da ricorsi che possono trovare anche una soluzione di natura extra – giudiziale. Si parla di coinvolgimento degli Uffici a tutti i livelli ivi compresi quelli di supporto (segreteria e protocollo per far partire celermente le convocazioni), urp ed ispettore di turno (per le informazioni sulle novità normative) e non soltanto del personale addetto alla trattazione e dei membri della commissione provinciale di conciliazione.
Si sottolinea la assoluta necessità di evitare i “tempi morti”, di rispettare i termini precisi, brevi e perentori previsti dalla procedura, di prevedere la possibilità di convocazioni straordinarie dell’organo conciliativo e di razionale organizzazione tale da ottemperare alle indicazioni ministeriali. Resta da vedere come tali “input” possano essere rispettati con una procedura che, causa coronavirus, potrebbe vedere il coinvolgimento “da remoto” di tutti i soggetti interessati, con modalità completamente diverse da quelle “in presenza”.
Giustificato motivo oggettivo e datori di lavoro coinvolti alla procedura
La nota ministeriale sofferma, innanzitutto, la propria attenzione sul concetto di giustificato motivo oggettivo rispetto al quale è obbligatorio effettuare il tentativo di conciliazione. Si parla di ristrutturazione di reparti, di soppressione del posto di lavoro, di terziarizzazione e di esternalizzazione delle attività che sono tutte ipotesi che scaturiscono dai principi fissati dall’art. 3, seconda parte, della legge n. 604/1966 e che fanno riferimento alla necessità di dover “cancellare” quel posto di lavoro nel quadro dell’organizzazione e del funzionamento dell’impresa ed alla impossibilità di una qualsiasi altra utilizzazione all’interno dell’azienda.
La dottrina e la giurisprudenza hanno enucleato altre ipotesi di licenziamento che fanno riferimento alla inidoneità fisica, alla impossibilità di “repechage” (anche all’interno del “gruppo d’imprese), a provvedimenti di natura amministrativa che incidono sul rapporto come, ad esempio, il ritiro della patente di guida ad un autista o del porto d’armi ad una guardia particolare giurata.
Il Ministero invita gli Ispettorati territoriali del Lavoro, a verificare se, in un arco temporale di 120 giorni, il datore di lavoro l’impresa effettui o abbia effettuato più di quattro licenziamenti: se ciò sia accaduto, a fronte di specifiche richieste di attivazione del tentativo obbligatorio, occorre non dar luogo all’attivazione dell’iter ed invitare l’impresa ad aprire la procedura collettiva di riduzione di personale prevista dalla legge n. 223/1991, non potendo effettuarsi i singoli tentativi conciliativi. Ovviamente, il discorso non si pone, ad esempio, per l’edilizia ove, per fine cantiere o fase lavorativa, l’iter procedimentale della legge n. 223/1991 non si applica (art. 24, comma 4).
A mio avviso, almeno nel breve periodo, ossia fino al 1° novembre p.v., gli Ispettorati territoriali del Lavoro dovranno, altresì, verificare (magari, attraverso una autocertificazione) se l’azienda rientra nel campo di applicazione della CIGO quale si evince dall’art. 10 del D.L.vo n. 148/2015 e che comprende le:
- imprese manifatturiere, di trasporti, estrattive, di installazione di impianti, produzione e distribuzione dell’energia, acqua e gas;
- cooperative di produzione e lavoro che svolgano attività lavorative similari a quelle degli operai delle imprese industriali, fatta eccezione delle cooperative ex DPR n. 602/1970, per le quali l’art. 1 del DPR non prevede la contribuzione per la CIG;
- imprese dell’industri boschiva, forestale e del tabacco;
- cooperative agricole, zootecniche e dei loro consorzi che esercitano attività di trasformazione, manipolazione e commercializzazione di prodotti agricoli propri per i soli dipendenti con contratto a tempo indeterminato;
- imprese addette al noleggio e alla distribuzione dei film di sviluppo e stampa di pellicole cinematografiche;
- imprese industriali per la frangitura delle olive per conto terzi;
- imprese produttrici di calcestruzzo preconfezionato;
- imprese addette agli impianti telefonici ed elettrici;
- imprese addette all’armamento ferroviario;
- imprese industriali degli Enti pubblici, salvo il caso in cui il capitale sia interamente di proprietà pubblica;
- imprese industriali ed artigiane dell’edilizia e affini;
- imprese industriali esercenti l’attività di escavazione e/o escavazione di materiale lapideo;
- imprese artigiane che svolgono attività di escavazione e di lavorazione di materiali lapidei, con esclusione di quelle che svolgono talee attività di lavorazione in laboratori con strutture e organizzazione distinte dalle attività di escavazione.
Fatta questa breve premessa ritengo necessario verificare, nel concreto, le modalità applicative partendo dalla individuazione dei soggetti nei confronti dei quali trova applicazione.
La circolare n. 3, richiamando il contenuto dei commi 8 e 9 dell’ art. 18 della legge n. 300/1970, come modificato dal comma 42 dell’art. 1 della legge n. 92/2012, ricorda che sono tenuti al rispetto della norma tutti i datori di lavoro, imprenditori e non imprenditori, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo abbiano alle proprie dipendenze più di quindici unità o più di cinque se imprenditori agricoli: la disposizione trova applicazione anche nei confronti del datore, imprenditore o non imprenditore, che nello stesso ambito comunale occupi più di quindici lavoratori, pur se ciascuna unità produttiva non raggiunga tali limiti (anche per l’imprenditore agricolo dimensionato oltre le cinque unità vale lo stesso principio) e, in ogni caso, a chi occupa più di sessanta dipendenti. Ai fini del computo i lavoratori a tempo parziale indeterminato sono calcolati “pro – quota” in relazione all’orario pieno contrattuale (art. 6 del D.L.vo n. 61/2000), mentre non si computano il coniuge ed i parenti entro il secondo grado sia in linea diretta che collaterale. A tale casistica, a mio avviso, va, poi, aggiunta l’ipotesi prevista dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 143 del 23 aprile 1998: allora di parlava della c.d. “tutela reale”, oggi si può affermare, alla luce delle novità introdotte, che la nuova procedura (che non necessariamente, in caso di licenziamento illegittimo porta alla reintegra) può essere estesa anche ai dipendenti dalle imprese dimensionate sotto le sedici unità, qualora le stesse, in sede di contrattazione collettiva, si siano impegnate a garantire tale maggiore tutela.
La previsione relativa “all’ampiezza aziendale”, ricalca quanto già affermato dal Legislatore del 1970: da ciò scaturisce la piena validità di alcuni indirizzi consolidatisi nel corso degli anni passati presso la Corte di Cassazione come quello secondo cui il calcolo della base numerica deve essere effettuato non già nel momento in cui avviene il licenziamento, ma avendo quale parametro di riferimento la c.d. “normale occupazione” nel periodo antecedente, senza tener conto di occasionali contrazioni dell’occupazione. Il datore di lavoro, sul quale grava, in giudizio, l’onere di dimostrare l’esistenza dei requisiti che lo portano al di sotto della “soglia” (Cass., n. 7227/2002), può provare che il calo è stato determinato da ragioni tecniche, organizzative e produttive (v. Cass., n. 2546/2004; Cass. n. 13274/2003; Cass., n. 12909/2003; Cass., n. 5092/2001).
Ma quali sono i prestatori di lavoro subordinato che, in ogni caso, non rientrano nel calcolo numerico per l’individuazione della soglia di applicazione? Qui, il riferimento sono alcuni indirizzi legislativi che nel corso degli anni hanno portato alla esclusione di alcuni soggetti e, precisamente:
- Gli assunti con rapporto di apprendistato, in quanto l’art. 47, comma 3, del D.L.vo n. 81/2015 li esclude espressamente;
- Gli assunti, già impiegati in lavori socialmente utili o di pubblica utilità, secondo la previsione contenuta nell’art. 7, comma 7, del D.L.vo n. 81/2000;
- I lavoratori somministrati che non rientrano nell’organico dell’utilizzatore;
Vanno, invece, compresi nell’organico aziendale:
- I soci lavoratori delle società cooperative di produzione e lavoro che, successivamente all’associazione, hanno sottoscritto un contratto di lavoro subordinato secondo la previsione contenuta nell’art. 1, comma 3, della legge n. 142/2001;
- I lavoratori a domicilio;
- I lavoratori sportivi professionisti, con rapporto di lavoro subordinato che, pur essendo trattati, in materia lavoristica, in modo del tutto “speciale” dalla legge n. 91/1981 (non trovano, ad esempio, applicazione gli articoli 5, 7 e 18 della legge n. 300/1970), rientrano nel computo dimensionale del proprio datore di lavoro;
- I lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto, con l’ovvia esclusione dal computo dei loro sostituti.
Il computo parziale nell’organico non riguarda soltanto i lavoratori ad orario ridotto a tempo indeterminato come detto, esplicitamente, dalla norma, ma anche quelli intermittenti, grazie all’art. 18 del D.L.vo n. 81/2015, che li calcola nell’organico aziendale “ai fini dell’applicazione di norme di legge, in proporzione all’orario di lavoro effettivamente svolto nell’arco di ciascun semestre”, mentre i dipendenti con contratto a tempo determinato vanno calcolati secondo le modalità indicate dall’art. 27 del predetto Decreto.
L’obbligatorietà del tentativo di conciliazione nei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo comporta alcune considerazioni:
- La procedura è una deroga generale al regime di facoltatività, introdotto nel nostro ordinamento con la legge n. 183/2010;
- L’individuazione quantitativa sopra considerata fa sì che tale rito procedimentale non possa applicarsi alle piccole imprese per le quali resta la possibilità di risolvere il rapporto di lavoro con le modalità già introdotte con la legge n. 108/1990, per la quale, in caso di licenziamento illegittimo (fatto salvo, in ogni caso, quello discriminatorio per il quale valgono le regole generali con la reintegra) è prevista una indennità di natura risarcitoria compresa tra le 2,5 e le 6 mensilità, aumentabili fino a 10 o 14 in presenza di particolari condizioni. Va, peraltro, ricordato che, per effetto del D.L.vo n. 23/2015 per tutti i nuovi assunti – data di discrimine il 7 marzo 2015 – (sia per le piccole che per le imprese dimensionate oltre le 15 unità) non trova più applicazione il tentativo obbligatorio ma c’è la possibilità dell’offerta conciliativa, di natura facoltativa, prevista dall’art. 6 del predetto Decreto;
- Non applicabilità della procedura significa che in caso di accordo, con risoluzione consensuale del rapporto nelle imprese con un organico fino a quindici dipendenti, il lavoratore non può iscriversi nelle liste di disoccupazione e percepire la NASPI, atteso che il Legislatore ha riservato tale possibilità soltanto alle imprese che sono obbligate a seguire la procedura prevista dal nuovo art. 7 della legge n. 604/1966 ed alle risoluzioni consensuali avvenute a seguito di accordi collettivi (da ultimo, se ne parla nel comma 11 dell’art. 8 del D.L. n. 41/2021);
- La specificità della procedura, fa sì che per gli effetti strettamente correlati non possano essere prese in considerazione altre forme di conciliazione come quella, ad esempio, in sede sindacale ex art. 411 cpc. Infatti, non è possibile ottenere la NASPI a seguito di risoluzione consensuale raggiunta in quella sede e, al contempo, nel caso in cui un licenziamento sia stato adottato dopo la conclusione di un incontro presso tale sede, si potrebbe verificare, con ricorso in giudizio, l’ipotesi prevista dal comma 6 del nuovo art. 18: il giudice, nel dichiarare inefficace il recesso per violazione della procedura ex art. 7 della legge n. 604/1966, applica la c.d. “indennità risarcitoria onnicomprensiva in misura ridotta”, compresa tra un minimo di sei ed un massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto e determinata in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro. Per la verità, l’interpello n. 1/2014 del Ministero del Lavoro ha ritenuto possibile un accordo sottoscritto “in sede protetta” ex art. 411 cpc nel quale, senza aver fatto ricorso al tentativo obbligatorio, il lavoratore accetti il licenziamento dichiarando, al contempo, la propria volontà di non ricorrere in giudizio anche per questioni di natura formale o procedurale.
Motivazione del recesso e procedura
Pensando ad una forma del tutto originale di tentativo obbligatorio di conciliazione, il Legislatore ha declinato la procedura prevista dal comma 40 dell’art. 1 della legge n. 92/2012, prendendo lo spunto da quella di riduzione di personale, i cui tempi sono dettati dagli articoli 4 e 5 della legge n. 223/1991. Lo spunto è quello ma, come sottolineo in diversi passaggi, i contenuti e le modalità sono molto diversi, sol che si pensi all’assenza di ruolo del sindacato interno dell’azienda nella procedura ipotizzata dall’art. 7 della legge n. 604/1966.
C’è, innanzitutto, da parlare della motivazione del licenziamento.
La circolare n. 3, sottolinea, quasi ce ne fosse bisogno, che nella fase di apertura della procedura essa è rimessa alla sola valutazione del datore di lavoro, secondo la previsione contenuta nell’art. 3, seconda parte, della legge n. 604/1966. Del resto, questo è l’orientamento della Suprema Corte (v., tra le altre, Cass., 9 luglio 2012, n. 11465), la quale ha affermato che il recesso per giustificato motivo oggettivo le cui motivazioni riguardano strettamente l’attività produttiva (fatta salva l’ipotesi della pretestuosità), non può essere sindacabile dal giudice di merito sotto l’aspetto economico ed organizzativo, atteso che questo è un campo strettamente riservato alla scelta imprenditoriale.
Chi, trovandosi nelle dimensioni occupazionali sopra indicate, intende procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, deve inviare una comunicazione scritta all’ Ispettorato territoriale del Lavoro, competente per territorio e, per conoscenza, al diretto interessato. La comunicazione è fondamentale, in quanto consente di conoscere le motivazioni alla base del provvedimento di recesso che si intende porre in essere. Nella nota, il datore di lavoro, deve, a mio avviso, dare “contezza” della impossibilità di procedere ad una nuova collocazione del dipendente (ai fini del c.d. “repechage”), anche dopo aver espletato una serie di valutazioni correlate all’ art. 2103 c.c. (variazione di un livello in meno all’interno della stessa categoria legale di inquadramento, con mantenimento della retribuzione di provenienza e con la sola perdita delle indennità legate alla precedente posizione, mancato accordo circa un demansionamento effettuato “in sede protetta”). Per evitare lungaggini nella procedura è auspicabile che il datore di lavoro comunichi anche il proprio indirizzo di posta elettronica certificata e che si dichiari disponibile, qualora sia possibile, ad un incontro “da remoto”, secondo la nuova procedura individuata a seguito del comma 2 dell’art. 12-bis della legge n. 126/2020.
Fatte queste brevi premesse, mi sembra necessario chiarire alcuni aspetti fondamentali.
Il primo riguarda l’individuazione dell’articolazione periferica dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro interessata: essa è quella sulla quale insiste il luogo in cui si svolge l’attività del lavoratore. Fori alternativi, che pure, per le controversie di lavoro sono individuati per le controversie di lavoro dall’art. 413 cpc, in questo caso non mi sembra siano presi in considerazione.
Il secondo chiarimento concerne le motivazioni. Queste vanno indicate unitamente alle eventuali misure finalizzate ad una ricollocazione: a mio avviso, rispetto alla procedura prevista dall’art. 4 della legge n. 223/1991, le motivazioni vanno, se possibile, meglio specificate, atteso che, in questo caso, il datore di lavoro ha già fatto la propria scelta, mentre nell’iter sui licenziamenti collettivi, l’imprenditore ha evidenziato la situazione di crisi e le cause, ma non ha ancora individuato i lavoratori oggetto del licenziamento, cosa che avviene, successivamente, secondo i criteri individuati con l’accordo sindacale o, in alternativa, utilizzando quelli individuati, in concorso tra loro, dall’art. 5 della legge n. 223/1991 (anzianità, carico familiare, esigenze tecnico produttive).
Ricevuta la richiesta, entra in campo l’Ispettorato territoriale del Lavoro che, senza particolari indugi, deve sollecitamente metterla a convocazione (magari, proponendo l’incontro “da remoto”), in quanto i tempi sono molto ristretti, perché trascorsi sette giorni dalla ricezione, senza che sia trasmessa la convocazione, il datore di lavoro (comma 6) può procedere al licenziamento del lavoratore.
Il termine è “ope legis” perentorio e non ammette letture diverse. Forme alternative di convocazione, rispetto alla lettera raccomandata, al di fuori della “pec” non sono previste, attesa la necessità di coniugare la certezza dell’invio con l’effettiva conoscenza del giorno e dell’ora dell’incontro.
I tempi della procedura sono oggettivamente ristretti e nel computo dei venti giorni complessivi per l’espletamento del tentativo, “sforabili” di comune accordo dalle parti anche su richiesta della commissione (“rectius” sotto commissione di conciliazione, in quanto è questa la composizione più ricorrente dell’organo di mediazione) vanno compresi anche quelli necessari per far sì che la nota di convocazione giunga alle parti. Non convocarle per l’espletamento del tentativo entro i venti giorni, se da un lato consente al datore di lavoro di considerare esaurita la procedura e, di conseguenza, lo abilita a procedere al licenziamento (comma 6), dall’altro significa vanificarla, cosa che non deve, assolutamente, succedere.
Le puntualizzazioni che seguono fanno riferimento ad un tentativo di conciliazione in presenza: ovviamente, “da remoto”, la cosa è più complessa e qualcosa potrebbe essere diversa.
Le parti possono essere presenti personalmente o per delega e, al contempo, possono farsi assistere sia da avvocati e consulenti del lavoro (iscritti all’albo, puntualizza la circolare n. 3, con esclusione dei professionisti equiparati ex lege n. 12/1979) che da rappresentanti dell’associazione datoriale o sindacale cui aderiscano o abbiano conferito mandato.
C’è, poi, la questione relativa al rilascio della delega.
La circolare n. 3 sposa una tesi già adottata in passato per le conciliazioni monocratiche: in sostanza, sono pienamente valide anche le deleghe sottoscritte dalle parti, unitamente a copia del documento di identità, o l’autentica rilasciata dallo stesso avvocato che rappresenta ed assiste il proprio cliente.
Altra questione, sostanziale, riguarda la presenza effettiva delle parti: si è detto della delega ma, sul piano estremamente pratico, è opportuno che, quanto meno, il lavoratore sia presente, anche “da remoto” con le garanzie previste da tale iter procedimentale, perché nel corso della discussione potrebbero emergere soluzioni alternative al licenziamento che possono essere diverse ed articolate, ma che solo l’interessato può valutare fino in fondo.
Entrando nel merito delle questioni relative allo svolgimento del tentativo di conciliazione, il Ministero osserva che l’assenza, non giustificata, del lavoratore, con la conseguente redazione del verbale di assenza, abilita il datore di lavoro ad attuare il recesso, intendendosi concluso l’iter procedimentale, mentre la stessa cosa non può dirsi nel caso contrario. La procedura ha, come si è detto più volte, tempi ristretti e “cadenzati”, non consente atteggiamenti dilatori e deve concludersi entro i venti giorni successivi a quello in cui è stata inviata la convocazione. Il termine anzidetto, può essere travalicato, qualora le parti, di comune accordo, lo chiedano per continuare a trattare o anche nell’ipotesi di temporanea sospensione (art. 7, comma 9) in presenza di un legittimo impedimento del lavoratore (anche autocertificabile) che va valutato dalla commissione (o sotto commissione) di conciliazione nella sua autonomia e che può consistere in uno stato di malattia, ma anche in un motivo diverso concernente la propria sfera familiare. La sospensione è prevista per un massimo di quindici giorni e, in ogni caso, non incidono sulla ulteriore durata della sospensione periodi di malattia più lunghi che vanno oltre l’arco temporale considerato. In sostanza, il Legislatore non ha voluto avallare comportamenti dilatori nella procedura, anche se supportati da certificazione medica.
L’organo conciliativo ha una funzione attiva: ciò significa che non deve stabilire chi ha ragione o chi ha torto (tale compito spetta soltanto al giudice), ma deve facilitare la soluzione positiva della controversia non soltanto facendo proposte economiche, ma anche esplorando altre possibilità che non si traducano, necessariamente, nella risoluzione del rapporto (ad esempio, trasformazione a tempo parziale, demansionamento, trasferimento in altra unità produttiva, distacco temporaneo in altra azienda, ricollocazione in altra azienda, ecc.): sta alla capacità mediatoria dell’organo collegiale ed alla sua professionalità svolgere il compito nel migliore dei modi. Ovviamente, tale attività deve essere possibile anche nella procedura “da remoto”, non essendo l’art. 410 cpc superabile da una modalità telematica, sia pure prevista dal Legislatore.
Qualora l’organo collegiale debba prendere atto dell’impossibilità di giungere ad una soluzione positiva, è tenuto a redigere un verbale di mancato accordo nel quale, oltre ad essere riportate, sia pure succintamente, le posizioni delle parti, dovrà trovare posto la proposta della commissione e, soprattutto, dovranno essere riportate le posizioni delle parti in ordine alla stessa. Tutto questo perchè, in sede di ricorso, il giudice tiene conto, qualora ritenga di dover risolvere la questione con il riconoscimento di un’indennità risarcitoria, del comportamento complessivo tenuto, cosa che si riflette anche sul pagamento delle spese di giudizio. Ovviamente, il riferimento alle posizioni espresse dalle parti richiede che vengano riportate “questioni sostanziali ed eccezioni sollevate dal lavoratore” (ad esempio, quella che ritiene discriminatorio il licenziamento), o l’assoluta indisponibilità a trovare una soluzione economica.
Ma, il tentativo di conciliazione, può concludersi positivamente e le soluzioni possono essere diverse, anche alternative alla risoluzione del rapporto: in questo caso, la commissione procede alla verbalizzazione dei contenuti (si pensi, ad esempio, ad un trasferimento, alla trasformazione del rapporto da tempo pieno a full-time o ad un trasferimento in altra unità produttiva) che divengono inoppugnabili, trattandosi di una conciliazione avvenuta ex art.410 cpc. Se, invece, si arriva ad una risoluzione consensuale del rapporto, la commissione ne darà atto attraverso il verbale riportandone tutti gli estremi, ivi compresi quelli di natura economica.
La risoluzione consensuale del rapporto al termine del tentativo obbligatorio di conciliazione è l’ipotesi apertamente caldeggiata dal Legislatore (art. 7, comma 7, della legge n. 604/1966) che, in un certo senso, derogando alla disciplina ordinaria, riconosce il diritto alla NASPI e postula anche un possibile affidamento del lavoratore, finalizzato alla ricollocazione, ad una Agenzia di lavoro (norma quest’ultima rimasta, sulla carta).
Il datore di lavoro che risolve consensualmente il rapporto, pur se ciò è intervenuto al termine della procedura conciliativa obbligatoria, è tenuto a pagare il c.d. “ticket licenziamento”, correlato all’anzianità aziendale e con un tetto massimo fissato a trentasei mesi. Tale contributo non è dovuto in quelle ipotesi nelle quali il lavoratore non “godrà” del trattamento NASPI perché, ad esempio, destinatario della pensione di vecchiaia.
Per completezza di informazione, occorre sottolineare come il diritto alla NASPI in presenza di una risoluzione consensuale, rappresenti una eccezione che, tuttavia, ha trovato, negli ultimi provvedimenti normativi una “replica”: mi riferisco, da ultimo, all’art. 8, comma 11, del D.L. n. 41/2021, che lo riconosce in tutte quelle ipotesi in cui un lavoratore aderisce all’accordo collettivo stipulato con le organizzazioni comparativamente più rappresentative a livello nazionale (ossia, a livello locale, con le organizzazioni territoriali di categoria) finalizzato ad “aggirare” il blocco dei licenziamenti. E’, indubbiamente, quest’ultima una misura non strutturale destinata a cessare con la fine dello “stop” ai recessi per motivi economici, pur se sarebbe auspicabile un prolungamento da stabilire con una norma specifica in quanto si tratta di uno strumento che aiuta a risolvere, nell’attuale momento, situazioni complesse che sono destinate, prevedibilmente, ad aumentare.
La risoluzione consensuale avvenuta avanti alla commissione di conciliazione non necessita di un ulteriore passaggio attraverso il sistema telematico delle dimissioni e delle risoluzioni consensuali, “figlio” della procedura ipotizzata ex art. 26 del D.L.vo n. 151/2015.
La risoluzione consensuale del rapporto potrebbe, in alcuni casi, essere accompagnata anche dalla composizione di altre questioni di natura economica afferenti il rapporto di lavoro, come le differenze retributive, le ferie non godute o il trattamento di fine rapporto. Ciò è possibile che avvenga con il medesimo atto, sia pure tenendo ben separate le questioni, a condizione ci sia la piena consapevolezza e conoscenza da parte del lavoratore circa la definitività e la conseguente inoppugnabilità ex art. 410 cpc. Sta alla sensibilità dell’organo collegiale, ove dalla discussione emerga che il lavoratore non ha avuto modo di verificare il “quantum economico” offerto, stralciare la parte relativa alla “chiusura delle pendenze economiche” e definire soltanto la controversia relativa al licenziamento, rinviando, se necessario, l’incontro per gli argomenti non risolti.
Licenziamento adottato al termine della procedura ed adempimenti amministrativi
Se si fa un breve riepilogo di quanto, sia pure sommariamente, esaminato nel corso di questa riflessione, si possono ipotizzare i momenti e le condizioni nelle quali il datore di lavoro può procedere al licenziamento:
- Entro sette giorni dalla ricezione della comunicazione da parte dell’ Ispettorato territoriale del Lavoro se quest’ultima non ha proceduto a convocare le parti entro il termine appena nominato, che è di natura perentoria (art. 7, comma 6, della legge n. 604/1966);
- Entro venti giorni dal momento in cui l’Ispettorato territoriale del Lavoro ha trasmesso la convocazione per l’incontro: esso è il termine entro cui il tentativo obbligatorio si deve concludere, fatte salve le eccezioni di cui si è già parlato (art. 7, comma 6, della legge n. 604/1966);
- A partire dal giorno fissato nella lettera di convocazione dell’Ispettorato territoriale del Lavoro, se il lavoratore non si è presentato all’incontro, senza addurre alcuna giustificazione (circolare n. 3/2013 Ministero del Lavoro) o in caso di abbandono della procedura durante la discussione (cosa che va verbalizzata dall’organo collegiale);
- Al termine della procedura di conciliazione conclusasi con esito negativo (art. 1, comma 41, della legge n. 92/2012).
Il licenziamento adottato ha effetto “dal giorno della comunicazione con cui il procedimento è stato avviato”: esso coincide con quello della ricezione, da parte dell’Ispettorato territoriale del Lavoro, della comunicazione del datore relativa alla c.d. “intenzione di licenziamento”, fatto salvo l’eventuale diritto del lavoratore al preavviso o alla indennità sostitutiva. Il periodo di eventuale lavoro svolto durante l’iter procedurale si considera come “preavviso lavorato”. L’obiettivo che si è posto il Legislatore è quello di individuare una data certa e “legale” di risoluzione del rapporto, con lo scopo di evitare possibili ed ipotizzabili rallentamenti di natura procedurale. Ovviamente, il licenziamento avvenuto nel periodo di tutela della maternità è “nullo alla radice” e, al contempo, la circolare n. 3 sottolinea l’effetto sospensivo sul recesso nel periodo di tutela della maternità e della paternità e in quello dell’infortunio sul lavoro. La malattia, invece, non genera alcun effetto sospensivo.
La circolare n. 3 si preoccupa degli obblighi di comunicazione di cessazione del rapporto richiamando luna nota del 12 settembre 2012 secondo la quale “esigenze di certezza in ordine agli esiti della procedura impongono di individuare come dies a quo ai fini della comunicazione in questione quello della risoluzione del rapporto senza tener conto della circostanza secondo la quale la stessa risoluzione produce effetto dal giorno della comunicazione con cui il procedimento è stato avviato, come prevede la nuova normativa introdotta dalla legge n. 92/2012”. In questi casi, gli effetti retroattivi del licenziamento non incidono sul termine di effettuazione della comunicazione obbligatoria on-line al centro per l’impiego che è di cinque giorni dalla data di effettiva cessazione del rapporto. La sanzione, in caso di inottemperanza, è compresa tra 100 e 500 euro, onorabile con il pagamento in misura ridotta pari a 100 euro oltre alle spese di notifica.
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2 Commenti
Marco
Aprile 19, 14:40Buongiorno Sig. Massi,
probabilmente mi troverò tra i lavoratori che saranno soggetti ad essere licenziati dopo 19 anni di esercizio in una multinazionale.
Volevo chiederle se l’azienda per la quale lavoro possa licenziare un dipendente per taglio dei costi e tenere 4 consulenti fulltime 5gg su 5 in sede (equiparabile ad un dipendente in tutto e per tutto) e chiudere il rapporto lavorativo con me.
Grazie
Marco
Eufranio Massi
Aprile 30, 10:06Se. Io dovesse avvenire, Lei potrà impugnare il li
Dott. Eufranio Massi