Il licenziamento ad "nutum" [E.Massi]
La risoluzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato per licenziamento è in genere accompagnata da una serie di tutele che, seppur cangianti nel tempo (penso alle modifiche all’art. 18 della legge n. 300/1970 intervenute con la legge n. 92/2012 o a quelle introdotte, per i lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015, dal decreto legislativo n. 23/2015), pongono limiti alla libera recedibilità’ del datore continua a sussistere in alcune ipotesi che fanno riferimento ai lavoratori in prova, agli apprendisti (al termine del periodo formativo), ai dipendenti che raggiungono il limite per il pensionamento di vecchiaia, ai lavoratori domestici ed agli sportivi professionisti.
Lavoratori in prova
Durante il periodo di prova che deve risultare da atto scritto (art. 2096 c.c.) all’atto della instaurazione del rapporto, ciascuna delle parti può recedere dal contratto senza alcun condizionamento derivante da preavviso od indennità: conseguentemente, non trova, ad esempio, applicazione al licenziamento la normativa prevista dalla legge n. 604/1966. Da ciò scaturisce che il recesso datoriale può avvenire in qualsiasi momento, a meno che nel contratto sottoscritto o in quello collettivo di riferimento, non sia stata fissata una durata minima della prova, cosa che comporta l’impossibilità di procedere alla risoluzione prima della data finale. Il licenziamento può essere esercitato senza particolari vincoli e non sussiste alcun obbligo di motivazione circa il mancato superamento della prova.
Libertà di recesso durante il periodo di prova, sta a significare che il datore è libero di valutare la capacità e l’attitudine professionale del lavoratore e, soprattutto, la sua abilità ad inserirsi proficuamente nel processo produttivo: tale potere datoriale non appare, comunque, illimitato in quanto, se dimostrato in giudizio, si potrebbe giungere alla invalidità del recesso qualora sia stato esercitato per fatto illecito, ossia per un qualcosa che non ha nulla a che vedere con la valutazione dell’esito della prova (Corte Costituzionale, 22 dicembre 1980, n. 189). Ovviamente, incombe in capo al lavoratore l’onere di dimostrare la illiceità del recesso o anche che la prova era stata adeguatamente superata. Talora la illiceità può essere individuata in via presuntiva laddove abbia avuto una durata eccessivamente ridotta (Cass., 25 marzo 1996, n. 2631).
Un discorso, leggermente diverso, va fatto per le assunzioni obbligatorie ex lege n. 68/1999: già sotto la vigenza della legge n. 482/1968 la Cassazione aveva ritenuto perfettamente legittimo l’inserimento del patto: la prova non può avere un contenuto “capzioso”, in quanto l’esperimento della stessa deve essere condotto in relazione a mansioni compatibili con la minorazione psicofisica ed, inoltre, l’esito conclusivo non può essere minimamente condizionato dal minor rendimento lavorativo rapportato a quello degli altri lavoratori normodotati con la stessa qualifica. In tale logica l’esito della prova può essere sindacato dal giudice che può dichiarare la nullità del recesso ove risulti determinato o, quantomeno, influenzato dalle condizioni alle ali la norma ricollega l’obbligo di assunzione
Va sottolineato come la Consulta, con la sentenza n. 80/1989, abbia affermato che anche per i disabili il patto di prova scaturisce dalla concorde volontà delle parti per cui il lavoratore non può essere costretto a stipularlo.
Apprendistato
Come è ampiamente noto, il datore di lavoro non può recedere dal contratto di apprendistato prima del termine del periodo formativo se non per giusta causa o per giustificato motivo: tuttavia, al termine dello stesso, disdettando il contratto ex art. 2118 c.c., può recedere dal rapporto senza alcun condizionamento o vincolo particolare, non procedendo al “consolidamento” del rapporto. Così afferma la contrattazione collettiva sulla scorta di quanto già previsto nel vecchio decreto legislativo n. 167/2011. Ovviamente, il datore è tenuto a far lavorare il periodo di preavviso (o, in alternativa, a corrispondere la relativa indennità sostitutiva). Durante il preavviso (cosa importante atteso che, se lavorato, si supera la soglia dei 36 mesi, previsti, in via ordinaria, per l’apprendistato professionalizzante) la retribuzione e la contribuzione sono quelli in essere al momento della conclusione del periodo formativo.
Diverso sembra il caso dell’apprendistato professionalizzante, senza limiti di età, previsto dall’art. 47, comma 4, del decreto legislativo n. 81/2015 per una qualificazione o riqualificazione professionale di lavoratori in mobilità o lavoratori disoccupati purché titolari di un trattamento di disoccupazione (NASPI, ASDI, DIS-COLL). Ebbene, la norma appena richiamata, afferma che “trovano applicazione, in deroga alle previsioni di cui all’art. 42, comma 4 (che tra le altre cose, prevede la libera recedibilità al termine del periodo formativo azionando l’art. 2118 c.c.), le disposizioni in materia di licenziamenti individuali”: di conseguenza, se le parole hanno un senso, piena applicabilità dell’art. 3, comma 1, del decreto legislativo n. 23/2015 in materia di licenziamento per giustificato motivo soggettivo, oggettivo o per giusta causa (con le motivazioni).
Lavoratori che raggiungono il limite per il pensionamento di vecchiaia
Il datore di lavoro può liberamente recedere dal rapporto, previo preavviso, allorquando un dipendente raggiunge il limite di età previsto dell’ordinamento per il “godimento” della pensione di vecchiaia.
Per la verità, la legge n. 214/2011 (la c.d. “riforma Fornero”) prevedendo la possibilità di “allungare” il periodo lavorativo a 70 anni, aveva generato più di un dubbio anche perché alcune sentenze di merito avevano stabilito che la possibilità di proseguire nel rapporto dipendesse esclusivamente dalla volontà del lavoratore. Di tale parere, per, non sono state le Sezioni Unite della Cassazione che, con la sentenza n. 17589 del 4 settembre 2015, hanno sancito che il diritto alla prosecuzione del rapporto non è un diritto potestativo dell’interessato ma discende, unicamente, dall’accordo con il datore: ovviamente in presenza di una volontà concorde (ma soltanto in tale caso) il rapporto prosegue con tutte le garanzie, i diritti ed i doveri.
Lavoratori domestici
Il licenziamento senza alcun obbligo di motivazione per i lavoratori domestici si evince dalla stessa legge regolatrice, la n. 339/1958. La ragione di ciò discende direttamente dalla natura del rapporto atteso che il datore di lavoro non può, assolutamente, essere equiparato all’imprenditore. Detto questo, per, si pone una ulteriore domanda: il recesso “ad nutum” è possibile anche in presenza di uno “status” di gravidanza della lavoratrice?
La risposta fornita dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 17433 del 2 settembre 2015 è positiva, nel senso che lo stesso non può essere ritenuto illegittimo perché non si ravvisano gli estremi per la illiceità o la discriminazione in quanto l’art. 62, comma 1, del decreto legislativo n. 151/2001 prevede, espressamente, l’applicazione alle collaboratrici familiari degli articoli 6, comma 3, 16, 17, 22, commi 3 e 6, ma non dell’art. 54, comma 3, lettera a) che vieta il recesso datoriale durante la gravidanza, fatta salva l’ipotesi di colpa grave costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro.
Va, peraltro, sottolineato come il CCNL del settore, ratificato il 20 febbraio 2014, abbia previsto all’art. 24 (e quindi, allargando l’ambito di applicazione dell’art. 54 del decreto legislativo n. 151/2001) la tutela delle lavoratrici rimaste “in stato interessante” nel corso del rapporto di lavoro (con divieto di licenziamento) fino al termine del periodo di astensione per congedo di maternità, fatta salva l’ipotesi della giusta causa.
La norma contrattuale, indubbiamente, vincola, senz’altro, i datori di lavoro che aderiscono all’associazione firmataria ma, a mio avviso, anche quei datori che, pur senza essere iscritti, applicano il CCNL per le parti che riguardano, la retribuzione, l’orario di lavoro, le ferie ma anche gli altri istituti normativi e contrattuali: sembrerebbe quantomeno strana la non applicazione, soltanto, della norma di tutela della gravidanza.
Sportivi professionisti
Il rapporto di lavoro subordinato degli sportivi professionisti è regolamentato dalla legge n 91/1981. Questa norma da una connotazione particolare nel senso che, così come previsto dall’art. 4, commi 8 e 9, non si applicano gli articoli 4, 5, 7 (limitatamente alle sanzioni disciplinari irrogate dalle federazioni sportive nazionali), 13, 18, 33 e 34 della legge n. 300/1970 e, a mio avviso, per attrazione normativa, il decreto legislativo n. 23/2015. Da ciò discende la libera recedibilità dal rapporto senza bisogno di alcuna motivazione e di questo ne abbiamo una prova continua, ad esempio, nei licenziamenti degli allenatori delle squadre di calcio alle prese con risultati deludenti.
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