Dimissioni e comportamento "inerte" del lavoratore [E.Massi]
Ho già avuto modo di esternare le mie perplessità sulla procedura telematica per le dimissioni, operativa dallo scorso 12 marzo e, soprattutto, sulle disposizioni normative che, inserite nell’art. 26 del decreto legislativo n. 151/2015, l’hanno generata: il giusto fine di tutelare i lavoratori (e, soprattutto, le lavoratrici) in un momento nel quale l’atto unilaterale ricettizio potrebbe essere condizionato da una serie di fattori esterni, si scontra con la necessità di tutelare, sotto l’aspetto delle possibili conseguenze, il datore di lavoro a fronte di un comportamento “inerte” dell’interessato che, allontanatosi dal posto di lavoro (e’ indifferente che abbia rassegnato le dimissioni o meno alla “vecchia maniera”) non ha esternato la propria volontà seguendo l’unico iter previsto dal Legislatore.
Si aspettava, per la verità, che l’Esecutivo nello schema di decreto legislativo correttivo di alcuni decreti attuativi del Jobs act, riparasse all’errore pensando ad una norma, sostanzialmente, analoga a quella prevista nella legge n. 92/2012, ora abrogata (dimissioni, comunque, efficaci entro un determinato termine in presenza di una lettera di invito del datore di lavoro a provvedere nel rispetto della norma), ma ci non è accaduto: il testo, inviato alle Camere per il parere obbligatorio ma non vincolante, prevede quale unica modifica quella relativa all’esonero dalla procedura unicamente per i dipendenti del Pubblico Impiego (art. 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165/2001) sul presupposto che “le dimissioni in bianco” non siano un fenomeno riferibile alle Amministrazioni Pubbliche, cosa anticipata, in via amministrativa, dal Dicastero del Lavoro con la circolare n. 12 del 4 marzo 2016.
La necessità di una specifica disposizione di legge circa gli effetti delle dimissioni per “fatti concludenti” e’ testimoniata dal fatto che la Corte di Cassazione ha, di recente, censurato alcune disposizioni di natura contrattuale o regolamentare che attribuivano ad un determinato comportamento il valore ed il significato negoziale di manifestazione implicita della volontà del lavoratore di dimettersi.
Significative di tale orientamento (che si discosta da quello che ammetteva la risoluzione per “facta concludentia” espressa dallo stesso organo con la sentenza n. 5776 del 6 giugno 1998) sono due sentenze della Suprema Corte la n. 16507 del 2 luglio 2013 e la n. 1025 del 21 gennaio 2015.
Con la prima e’ stata censurata una clausola contrattuale secondo la quale se il lavoratore al termine di un periodo di aspettativa non rientra, e’ da considerarsi dimissionario: il ragionamento della Cassazione e’ che, in tal modo, non viene ammessa la possibilità della prova contraria, ritenendo “concludente” il tacito comportamento del dipendente.
Con la seconda ad essere censurato e’ un regolamento aziendale (quindi, un atto unilaterale dell’imprenditore) che prevedeva “le dimissioni automatiche” per il lavoratore assente ingiustificato dal servizio per almeno dieci giorni consecutivi: la cancellazione della disposizione datoriale e’ conseguente al fatto che non era previsto alcun contraddittorio atteso che la cessazione del rapporto derivava, direttamente, da una assenza ingiustificata (cosa che avrebbe dovuto generare una contestazione disciplinare) e non dalla volontà di dimettersi.
Al momento, quindi, come stabilito a chiare lettere nella FAQ n. 33 del Ministero del Lavoro presente su “clic lavoro” relativa all’argomento “dimissioni”, il datore di lavoro, se intende liberarsi del dipendente, deve “rescindere il rapporto”, ossia deve precedere al licenziamento.
Da quanto appena detto nascono problemi operativi e costi.
Cominciamo dalla procedura da seguire.
Si è in presenza di un licenziamento per “giustificato motivo soggettivo” (art. 3 della legge n. 604/1966) causato da un notevole inadempimento contrattuale (assenza ingiustificata protrattasi per più giorni). Da ci discende la necessità di una riconduzione del recesso datoriale all’interno dell’iter disciplinare stabilito dall’art. 7 della legge n. 300/1970 (con tutte le conseguenze del caso, trattandosi di un licenziamento), cosa che comporta il pagamento dell’indennità di preavviso secondo la previsione del CCNL applicato e, nel caso in cui ci si trovi di fronte alla risoluzione di un rapporto a tempo indeterminato, del contributo di ingresso alla NASPI che, rapportato ad una anzianità aziendale di 36 mesi (o superiore) risulta pari a 1469,95 euro (40,83 per ogni trenta giorni). Per effetto di tale licenziamento il lavoratore ha diritto al trattamento di disoccupazione, con esborso economico da parte dell’INPS, cosa che non si sarebbe verificata in presenza di dimissioni, atteso che lo “status” non sarebbe stato involontario. La quantificazione e’ rimessa ai criteri individuati dal decreto legislativo n. 22/2015 e, almeno potenzialmente, il lavoratore potrà portare “in dote” ad un successivo datore di lavoro il 20% dell’indennità non ancora percepita al momento della nuova assunzione o potrà essere assunto con contratto di apprendistato professionalizzante, senza limiti di età, per una qualificazione o riqualificazione professionale, in quanto titolare di un trattamento di disoccupazione (art. 47, comm 4, del decreto legislativo n. 81/2015)
Ma, i problemi per un imprenditore che “trasforma” le dimissioni in un licenziamento possono non finire qui.
Mi riferisco alla possibilità che lo stesso sia titolare di benefici per le assunzioni che tra i vari obblighi prevedano il rispetto dell’incremento occupazionale netto, postulato dall’art. 33, paragrafo 3, del Regolamento CE n. 651/2014 (chiarisco, subito, che tale onere non riguarda l’esonero triennale e quello biennale previsto dalle leggi n. 190/2014 e n. 208/2015). Si tratta, invece, (lo cito a titolo di esempio ma ci sono anche le altre ipotesi in cui ricorre l’onere), del nuovo incentivo predisposto dall’art. 13 della legge n. 68/1999, come modificato dall’art. 10 del decreto legislativo n. 151/2015, in favore dei datori di lavoro che, anche se non tenuti al rispetto dell’obbligo, procedono all’assunzione a tempo indeterminato di disabili con gravi e particolari handicap (anche di natura psichica od intellettiva), ricevendo, quale contributo, attraverso il sistema del conguaglio previdenziale un cospicuo abbattimento del costo mensile della retribuzione lorda (del 70% o del 35% a seconda dei casi) per un periodo che pu andare da un minimo di 36 mesi ad un massimo di 5 anni (per i disabili affetti da minorità psichica o intellettiva).
Ebbene, stando al Regolamento appena citato ed alla circolare INPS n. 99/2016 che richiama, per i soli fini delle modalità di calcolo la sentenza della Corte Europea del 2 aprile 2009, il beneficio viene riconosciuto anche quando l’incremento dei posti precedentemente occupati (il calcolo va fatto mese per mese raffrontandolo con il numero medio di unità lavoro dell’anno precedente) non si realizzi a seguito di:
- dimissioni volontarie;
- invalidità;
- pensionamento per raggiunti limiti di età; – riduzione volontaria dell’orario di lavoro; – licenziamento per giusta causa.
Ebbene, il licenziamento di cui stiamo parlando viene classificato come per “giustificato motivo oggettivo” (art. 3 della legge n. 604/1966) che è cosa diversa dall’esimente prevista dall’art. 33, paragrafo 3, de Regolamento n. 651/2014 “licenziamento per giusta causa” (art. 2119 c.c.), cosa che, stando al tenore letterale della disposizione, potrebbe avere, o è conseguenza,mil mancato rispetto dell’incremento occupazionale con il “blocco” dei benefici.
Concludo, con un auspicio: l’introduzione, nella versione definitiva del decreto legislativo correttivo, di un concetto di dimissioni ” per fatti concludenti” entro un certo periodo, con tutte le garanzie possibili per il lavoratore sotto l’aspetto dell’informativa, sarebbe un fatto positivo che non costringerebbe a ricorrere ad artifizi o ad interpretazioni amministrative successive, destinate ad avere un valore relativo potendo, sempre, essere “non applicate” dall’apparato giudiziario.
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2 Commenti
Giuseppe
Luglio 09, 00:45Salve dottore un mio dipendente cassaintegrato dopo ripetute richieste di rientro al lavoro sia telefonicamente che via raccomandata rimane inerte senza dare le dimissioni telematiche addirittura via messaggi mi chiede se ho già fatto il licenziamento (ovviamente per arrivare alla Naspi) e mi ha anche detto di essersi portato la residenza ad oltre 1000km dalla sede lavorativa al nuovo indirizzo ogni raccomandata dicendomi di non avere nessuna intenzione di tornare a lavorare.
Sono davvero obbligato a licenziare prendendomi carico di tutte le spese?
Eufranio Massi
Luglio 15, 17:22Secondo la attuale normativa le dimissioni valide sono soltanto quelle rese in via telematica secondo la procedura prevista dalla norma. Il lavoratore se non vuole darle (può farlo direttamente, può farlo anche andando presso la sede di un Ispettorato territoriale del Lavoro o presso un sindacato o un patronato). Se non ci va, l’unica cosa è risolvere il rapporto, ma in questo caso il datore deve pagare il trattamento di NASPI (non ci sono altre strade).
Dott. Eufranio Massi