Controlli a distanza e sugli strumenti di lavoro: l’informativa al lavoratore [E.Massi]
Un passaggio molto importante della recente normativa che ha cambiato la struttura e l’impostazione dell’art. 4 della legge n. 300/1970 è rappresentato dall’obbligo di informare i dipendenti sui controlli in azienda, qualora si intenda utilizzarli per ” tutti i fini connessi al rapporto di lavoro”. Si tratta di un passaggio essenziale ed obbligatorio se si desidera utilizzare tutte le informazioni desunte sia dai controlli a distanza attraverso la strumentazione per la quale è intervenuto l’accordo sindacale o, in alternativa, il provvedimento autorizzatorio della Direzione territoriale del Lavoro, che quelli rilevabili dai c.d “strumenti di lavoro”.
Una breve disamina sul nuovo articolo 4 si rende necessaria: se, nella sostanza, poco è cambiato con riguardo alla procedura preventiva alla installazione delle telecamere (e la sanzione, che è di natura penale, si applica pur se le stesse sono state installate ma non funzionanti), molto di nuovo si rinviene nel comma 2 ove si afferma che l’accordo collettivo o l’autorizzazione ministeriale non servono per gli strumenti di dotazione aziendale e per quelli di registrazione delle presenze. Con la nuova formulazione viene meno il principio desumibile da una interpretazione ministeriale del 16 aprile 2012, secondo la quale “le immagini registrate non possono, in nessun caso, essere utilizzate per eventuali accertamenti sul l’obbligo di diligenza da parte dei lavoratori ne’ per l’adozione di provvedimenti disciplinari”, cosa che portava le Direzioni territoriali dal Lavoro ad inserire nei provvedimenti autorizzatorio tale specifica.
La riflessione che segue cercherà di mettere in evidenza gli elementi strettamente necessari per l’uso che si intende fare delle notizie desunte dagli strumenti appena indicati, come recita il comma 3 del nuovo articolo 4.
L’informazione deve, ovviamente, essere preventiva e, a mio avviso, oggi, ben più ampia e precisa di quella, oltre modo necessaria, dettata, a suo tempo, dall’art. 13 del D.L.vo n. 196/2003 che fa riferimento agli estremi identificativi del responsabile del trattamento (o, in mancanza, del titolare), alla possibilità per l’interessato di accedere ai dati, ai soggetti che possono venire a conoscenza dei dati stessi ed al loro ambito di diffusione ed, infine, alle conseguenze legate al rifiuto di forme di controllo. L’art. 13 ha una funzione diversa rispetto alla informativa di cui si sta parlando, in quanto è finalizzato a rendere edotto il lavoratore circa il trattamento dei dati in possesso del datore in ragion della prestazione lavorativa e che possono comprendere anche quelli desunti dagli strumenti di lavoro.
Detto questo, occorre, a mio avviso, procedere ad individuare i contenuti della comunicazione specifica postulata dal comma 3, non dimenticando ci che il Garante della privacy, sulla scorta del D.L.vo n. 196/2003 ha detto: ogni indagine relativa, ad esempio, all’uso della posta elettronica e di internet è subordinata alla emanazione ed alla conoscenza di un codice di condotta ove le regole di comportamento fissate dall’imprenditore vanno portate a conoscenza dei lavoratori, magari anche con le medesime modalità fissate dall’art. 7 della legge n. 300/1970 per il codice disciplinare.
L’informativa, qualora si intenda utilizzare tutti i dati ricavati dai controlli per i fini connessi ai rapporti di lavoro, va inviata a tutti i lavoratori con contratto di lavoro subordinato, sia pure con contenuti diversi, in quanto, come prevede il comma 2, gli stessi possono avvenire anche attraverso la consultazione del badge aziendale e di altre forme di rilevazione della presenza, come il “pass” per accedere all’autorimessa dell’impresa.
L’informativa, che va fornita dal titolare dell’impresa o da quello del trattamento dei dati (se identificato ai sensi dell’art. 29 del D.L.vo n. 196/2003), deve riguardare due aspetti: la identificazione degli strumenti, di proprietà aziendale, messi a disposizione dall’imprenditore e le modalità di effettuazione dei controlli.
Per quel che concerne il primo aspetto, vanno specificate al lavoratore le modalità di funzionamento dell’apparecchiatura, la eventuale presenza di strumenti che controllano o che ne inibiscono la totale utilizzazione.
L’informativa rappresenta la “conditio sine qua non” ai fini della legittimazione di ogni controllo. Essa, per evidenti motivi di opportunità, va fatta per iscritto e firmata dal dipendente per ricevuta e deve mettere, a mio avviso, in evidenza, i limiti entro i quali è consentito un uso della strumentazione per fini privati (si pensi, ad esempio, al telefono cellulare di servizio o al computer aziendale) anche con riguardo alla posta aziendale, ai siti internet la cui consultazione non si ritenga pertinente alla prestazione lavorativa ed alle eventuali conseguenze di natura disciplinare (ma anche di altro genere come, ad esempio, ai fini della valutazione della,produttività) nel caso in cui se ne faccia un uso contrario alle disposizioni impartite.
Detto questo, tuttavia, non è che il datore di lavoro possa, indiscriminatamente, effettuare tutti i controlli che vuole: sono, assolutamente vietati, quelli di natura “massiva”, indiscriminata e continua e non strettamente legati alla prestazione svolta dal dipendente.
Per controllo “massivo” possono, senz’altro definirsi, tutte quelle forme che portano a registrare i file del dipendente o a monitorare in maniera costante e ripetitiva tutti i siti internet visitati, o a visionare le e-mail in entrata ed in uscita del lavoratore.
Da ci ne consegue che se si ritiene lecito un controllo su uno smartphone di dotazione aziendale, fornito ad un dipendente che opera all’esterno dell’impresa (ed il controllo risulta funzionale all’attività svolta) non lo è per una impiegata amministrativa che presta servizio in via continuativa preso la sede dell’azienda.
L’informativa ha una duplice funzione: da un lato mette il lavoratore in guardia circa i “limiti” da non superare e, dall’altro, vieta un uso indiscriminato dei controlli da parte del datore atteso che il dipendente viene posto nelle condizioni di conoscere con quali modalità la sua attività potrà essere controllata.
Tornando all’eventuale controllo sulla posta elettronica non si può che rimarcare, sulla base di indirizzi forniti sia dalla Giurisprudenza che dal Garante, che lo stesso, qualora le condizioni lo consentano, debba essere anonimo e su dati aggregati e circoscritti a particolari settori di lavoro. Una finalità lecita di controllo è ravvisabile in tutte quelle situazioni in cui è necessario seguire la strada della tutela giudiziaria.
Ma, una domanda ricorrente tra gli operatori e’ la seguente: c’è maggiore possibilità per il datore di lavoro di procedere ad un eventuale recesso in presenza di fatti particolarmente gravi rilevati sulla base dei dati acquisti sia attraverso la strumentazione introdotta in azienda per la salvaguardia del patrimonio, per le esigenze organizzative e produttive e per la sicurezza sul lavoro, che mediante i mezzi forniti per l’espletamento della prestazione?
La risposta è sì ma essa va, comunque, correlata alla modalità del controllo ed alla eventuale mancanza accertata, pur nella considerazione che per i nuovi assunti ai quali si applicano le c.d. “tutele crescenti” postulate dal D.L.vo n. 23/2015, la strada da percorrere sembra più facile alla luce della previsione dell’art. 3, comma 2 che limita l’accertamento del giudice alla verifica se il fatto materiale è avvenuto o meno, essendogli preclusioni accertamento circa la proporzionalità del provvedimento rispetto alle previsioni del codice disciplinare: ovviamente, per i vecchi assunti per i quali si applica l’art. 18 della legge n. 300/1970 (ma per i dipendenti delle imprese dimensionate fino a quindici unità tale discorso non vale non essendo prevista la reintegra) va verificata la sussistenza del fatto e la sua correlazione con il regolamento di disciplina. In questa ottica non va dimenticato un recente indirizzo propugnato dalla Cassazione con una sentenza del 2 novembre 2015 che ha ritenuto illegittimo il licenziamento adottato da un datore di lavoro sulla scorta di un utilizzo, durante la prestazione lavorativa, della e-mail personale aziendale e della “navigazione in internet”. La Suprema Corte ha motivato la propria decisione (si trattava di un dipendente sotto “tutela reale” dell’art. 18) con la constatazione che l’uso personale della strumentazione aziendale non aveva, significativamente, inciso sulla prestazione lavorativa: di conseguenza, il provvedimento di risoluzione del rapporto era da ritenersi abnorme rispetto al mancanza contestata.
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