Concetto di giusta causa di licenziamento e tipizzazione contrattuale

Con una recente sentenza, la n. 11665/2022, la Suprema Corte, trovandosi a dover interpretare le disposizioni dei commi 4 e 5 dell’art. 18 della legge n. 300/1970, ha espresso una massima importante per i giudici della Corte di Appello al cui esame è stata rinviata la decisione cassata.

Concetto di giusta causa di licenziamento e tipizzazione contrattuale

La materia dei licenziamenti individuali è sempre oggetto di particolare attenzione da parte del nostro ordine giudiziario e, sovente, la Corte di Cassazione, interpretando le previsioni normative che si sono succedute nel tempo, enuncia principi di diritto che segnalano evoluzioni rispetto alle indicazioni fornite dal Legislatore con i suoi provvedimenti che, molte volte, peccano di chiarezza.

Con una recente sentenza, la n. 11665/2022, la Suprema Corte, trovandosi a dover interpretare le disposizioni dei commi 4 e 5 dell’art. 18 della legge n. 300/1970, ha espresso una massima importante per i giudici della Corte di Appello al cui esame è stata rinviata la decisione cassata.

Ma in cosa consisteva l’addebito contestato che ha dato origine a diverse interpretazioni da parte dei giudici di merito e di quelli di legittimità?

Il lavoratore, da tanto tempo dipendente dell’impresa, aveva denigrato il proprio datore di lavoro, in una conversazione via chat con una collega, non aveva denunciato l’aggressione subita durante un servizio da una guardia particolare giurata, ed aveva omesso di comunicare alla Questura per cinque mesi i turni delle guardie particolari giurate, disattendendo precise direttive della propria Direzione.

Di qui, dopo le contestazioni di rito e l’audizione a difesa, era avvenuto il licenziamento per giusta causa prontamente impugnato dall’interessato.

Il giudice di opposizione, ritenendo illegittimo il recesso datoriale disponeva, ex art. 18, comma 4, la reintegra nel posto di lavoro ed il pagamento di una indennità risarcitoria pari a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto.

I giudici della fase sommaria e, poi, quelli della Corte di Appello, pur riconoscendo la mancanza della giusta causa, avevano sottolineato come il fatto contestato non fosse espressamente previsto nella casistica disciplinare del CCNL laddove la tipizzazione della condotta non era prevista come punibile attraverso una sanzione conservativa. Di conseguenza avevano optato per l’applicazione del comma 5 dell’art. 18 (indennità di natura risarcitoria compresa tra dodici e ventiquattro mensilità).

La prima mancanza contestata (quella della chat con la collega) era stata ritenuta irrilevante sotto l’aspetto disciplinare, mentre le altre due contestazioni relative alla omessa denuncia dell’aggressione della guardia giurata e la mancata trasmissione delle note sui turni di servizio alla Questura non potevano essere prese in considerazione all’interno della fattispecie che all’art. 101 del CCNL applicato, prevede l’irrogazione di una sanzione conservativa formulata “in modo generico ed indefinito”.

La disposizione contrattuale, infatti, prevede, infatti, una ampia gamma di sanzioni disciplinari che partono dal rimprovero scritto e che, passando attraverso la multa, arrivano fino alla sospensione, in presenza di condotte “lievemente irregolari”, di prestazioni rese “senza la necessaria diligenza” o con “negligenza grave”.

Se mi è consentita una breve sottolineatura, quanto appena detto non fa altro che richiamare un qualcosa che, nel corso degli anni, è stato detto da molti operatori: la parte disciplinare di diversi contratti collettivi è manchevole in quanto generica e non sempre rispondente alle casistiche che si presentano nella vita aziendale. Cambiano i CCNL, nuovi istituti vengono introdotti, ma le norme relative all’apparato disciplinare sono sempre generiche ed uguali da moltissimi anni.

La Cassazione ha affermato, cassando la sentenza con rinvio alla Corte di Appello, che “la fattispecie punita con una sanzione conservativa laddove sia delineata dalla norma collettiva attraverso una clausola generale, non impedisce al giudice di interpretare la fonte negoziale e verificare la sussumibità del fatto contestato nella previsione collettiva anche attraverso una valutazione di maggiore o minore gravità della condotta”.

Alla obiezione relativa al fatto se ciò sia compatibile con la formulazione del comma 4 dell’art. 18 della legge n. 300/1970, la Suprema Corte risponde che il tenore letterale del predetto comma 4 non esclude “alcun ragionevole richiamo ad una tipizzazione specifica e rigida delle singole fattispecie”.

Cosa si può evincere dal principio di diritto espresso dalla Cassazione?

A mio avviso, c’è un richiamo ai giudici del merito ad esaminare le fattispecie contestate in relazione alla previsione della pattuizione collettiva, senza soffermarsi, soprattutto laddove questa sia generica e di carattere generale, al mero dettato normativo e, in un certo senso, ci vedo il superamento di una sorta di meccanicità nella applicazione delle norme, che il Legislatore degli ultimi anni aveva tenuto in particolare evidenza ma che già la Corte Costituzionale, con la decisione n. 194/2018 (sia pure per altri aspetti che concernono l’indennità risarcitoria in presenza di un licenziamento ex D.L.vo n. 23/2015) aveva rimarcato, lasciando al giudice di merito la possibilità, in presenza di situazioni non oggettivamente assimilabili, di integrare il criterio risarcitorio legato all’anzianità aziendale, con altri criteri desumibili anche da quelli indicati dall’art. 8 della legge n. 604/1966.

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Eufranio Massi
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E' stato per 40 anni dipendente del Ministero del Lavoro. Ha diretto, in qualità di Dirigente, le strutture di Parma, Latina, i Servizi Ispettivi centrali, Modena, Verona, Padova e Piacenza. Collabora, da sempre, con riviste specializzate e siti web sul tema lavoro tra cui Generazione vincente blog.

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