Le dimissioni telematiche e l’inottemperanza del lavoratore
L'Editoriale di Eufranio Massi sulla questione delle dimissioni telematiche dei lavoratori
Dopo più di sei anni, da quando entrò in vigore il D.M. del Ministro del Lavoro, applicativo dell’indirizzo espresso dal Legislatore delegato con l’art. 26 del D.L.vo n. 151/2015, gli operatori e, in particolar modo, i datori di lavoro continuano ad arrovellarsi sul tema del “che fare?” in presenza di un comportamento del dipendente che, a voce o per iscritto, presenta le proprie dimissioni da un rapporto a tempo indeterminato, ma che non le rassegna nel solo modo previsto dalla norma, ossia attraverso la procedura telematica.
La disposizione non ammette altre vie, affermando, con una espressione poco giuridica, che le dimissioni vanno “fatte” soltanto in questo modo. Vale la pena di ricordare come tale procedura nasca con l’obiettivo di combattere il fenomeno delle c.d. “dimissioni in bianco” (presenti, talora, in determinati contesti, soprattutto in presenza di rapporti di lavoro di giovani donne), ma anche con quello di avere per tutti, comunque, una genuinità dell’atto, revocabile, in ogni caso, entro i sette giorni successivi alla sua esternazione.
Sovente, l’iter procedimentale, che assicura la piena consapevolezza delle stesse, non viene posto in essere (nonostante solleciti più o meno pressanti del datore di lavoro) perché il lavoratore, con il proprio comportamento, intende essere licenziato per poter usufruire del trattamento di NASPI che, come è noto, non viene riconosciuto in caso di dimissioni (con la sola eccezione di quelle per giusta causa o di quelle della donna nel “periodo protetto”). In questi anni, per la verità, ci sono stati diversi tentativi finalizzati alla reintroduzione, con tutte le dovute garanzie, di un qualcosa di simile, seppur profondamente diverso, del testo già presente nell’art. 4 della legge n. 92/2012, ove al comportamento “inerte” del dipendente, protrattosi per un certo periodo, si ricollegava la veridicità della risoluzione del rapporto per dimissioni avvenute per “facta concludentia”.
Si dirà: ma il datore di lavoro può, sempre, risolvere il rapporto attraverso un provvedimento di licenziamento motivato dall’assenza ingiustificata dal lavoro protrattasi oltre i termini quantitativi previsti dal contratto collettivo (fu questa la tesi sostenuta del Ministro “pro tempore” nel 2017 durante alcuni lavori parlamentari).
Ma il recesso datoriale comporta, in questi casi, l’apertura di un procedimento con le garanzie previste dall’art. 7 della legge n. 300/1970 e, soprattutto, comporta il pagamento del contributo d’ingresso alla NASPI, il cui valore è sempre crescente e che, per il 2022, per un dipendente con almeno tre anni d anzianità aziendale si attesta a 1673, 76 euro (tetto massimo anche con una anzianità superiore), atteso che per ogni mese di lavoro è pari al 46,49 euro, mentre per ogni anno di lavoro risulta essere di 557,92 euro.
Questo tema che ho, brevemente, riassunto è stato oggetto di una decisione del Tribunale di Udine con una sentenza depositata il 27 maggio u.s. e che aveva avuto origine dal ricorso di una lavoratrice che contestava al proprio ex datore di lavoro di aver comunicato al centro per l’impiego la cessazione del rapporto per “dimissioni”, cosa che la ricorrente contestava non avendo effettuato la procedura prevista dal D.M. applicativo del Ministro del Lavoro.
Il giudice ha posto, nella sua disamina, l’accento sul fatto che l’art. 26 del D.L.vo n. 151/2015 ed il successivo D.M. del Ministro del Lavoro hanno un solo obiettivo che è quello di assicurare la consapevolezza e la veridicità della manifestazione di volontà che si concretizza, in quel momento, nella formulazione delle dimissioni: la sentenza continua affermando che l’art. 26 non può disciplinare il caso delle dimissioni implicite derivanti da un comportamento fattuale concludente. L’art. 26, continua il Tribunale di Udine, non ha abrogato gli articoli 2118 e 2119 del codice civile concernenti la recedibilità da parte del dipendente ove non risulta necessario esprimere formalmente la volontà ma dove è sufficiente che dal comportamento del lavoratore emerga l’effettivo volere dello stesso.
L’esame del Tribunale si è spinto, sul punto, anche ad una verifica di quanto stabilito nella legge n. 183/2014 che ha delegato il Governo ad emanare più provvedimenti Decreti Legislativi destinati a modificare il mercato del lavoro: ebbene ,si legge nella sentenza, che il Parlamento, nell’atto di concedere la delega all’interno di alcuni principi direttivi aveva affermato che occorreva tener conto della “necessità di assicurare la certezza della cessazione del rapporto nel caso di comportamento concludente in tal senso del lavoratore o della lavoratrice”. L’Esecutivo, invece, si è fermato, unicamente, a fissare le regole delle dimissioni istantanee del lavoratore, attraverso la procedura telematica, cosa che, secondo il Tribunale di Udine, impone una lettura complessiva della norma e che porta alla affermazione della sussistenza delle dimissioni di fatto.
La ricostruzione normativa appena espressa (che, indubbiamente, al momento vale soltanto per le parti in causa) va inserita in una situazione di “passività accettata” (ce lo dimostra l’esperienza degli ultimi anni) ove ci sono costi per il datore di lavoro che procede al licenziamento per assenze ingiustificate con il pagamento del contributo di NASPI e per le finanze pubbliche che debbono erogare il trattamento di disoccupazione il quale, altrimenti, non sarebbe spettato in caso di dimissioni volontarie.
Che dire?
E’ una sentenza che, a mio avviso, richiama l’attenzione del Legislatore a dover trovare una soluzione a tutti quei casi (e sono tanti) ove, per le ragioni più disparate, il lavoratore pur rassegnando, in qualche modo (per iscritto od oralmente) le proprie dimissioni, si allontana dal posto di lavoro e non le compila nella procedura ben evidenziata dalla norma ove, in caso di necessità, può avere anche il supporto materiale delle articolazioni periferiche dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro.
Personalmente, credo, che la fissazione di un termine congruo, trascorso il quale le dimissioni si intendono avvenute (con un obbligo per il datore di ricordare all’interessato la necessità dell’adempimento) sarebbe la cosa più giusta.
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