Ispettorato Nazionale del Lavoro: riprende il tentativo obbligatorio di conciliazione
Fornite alcune delucidazioni e direttive concernenti la ripresa delle procedure di conciliazione relative ai licenziamenti individuali per motivi economici
Con la nota n. 5186 del 16 luglio 2021, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha fornito alle proprie articolazioni territoriali alcune delucidazioni e direttive concernenti la ripresa delle procedure di conciliazione relative ai licenziamenti individuali per motivi economici, previsti dall’art. 7 della legge n. 604/1966. Come è noto, infatti, con la sola esclusione del settore tessile, dal 1 luglio è terminato il blocco dei recessi per giustificato motivo oggettivo, con la conseguenza che il previsto tentativo obbligatorio di conciliazione può riprendere.
L’INL allega alla nota sopracitata un nuovo modello di richiesta che comprende anche alcune notizie relative a richieste di integrazioni salariali già presenti nel D.L. n. 73/2021, ora convertito nella legge n. 106, che sospendono i licenziamenti in caso di richiesta di ammortizzatori sociali (art. 40) o in caso di richiesta dell’esonero contributivo per i settori degli stabilimenti termali, del turismo, del commercio, dello spettacolo, della cultura e della c.d. “ricreazione” ove (art. 43) i licenziamenti non possono essere effettuati fino al 31 dicembre prossimo. La stessa cosa vale per il contratto di solidarietà difensivo “a tempo e personalizzato” di cui possono fruire i datori di lavoro che, nel confronto tra il fatturato del primo semestre del 2019 e quello dello stesso periodo del 2012, hanno subito un calo di almeno il 50%.
Lo stesso Ispettorato Nazionale del Lavoro richiama, per quel che riguarda la piena operatività amministrativa, la circolare del Ministero n. 3/2013: alla luce di tale richiamo ritengo opportuno, per chi avesse la necessità di operare attraverso l’iter procedimentale dell’art. 7 della legge n. 604/1966, soffermarmi sugli aspetti principali di tale nota.
Tale procedura, è bene ricordarlo in premessa, non riguarda gli assunti dai datori di lavoro a partire dal 7 marzo 2015, data di entrata in vigore del D.L.vo n. 23/2015, per i quali la norma ha abrogato il tentativo obbligatorio di conciliazione ed ha previsto soltanto la possibilità dell’offerta conciliativa, peraltro facoltativa, secondo l’iter procedimentale contenuto nell’art. 6 del predetto decreto.
Le prima impressione che si trae dalla lettura del testo è quella di un chiarimento amministrativo abbastanza preciso e puntuale che richiama, in diversi punti, le articolazioni periferiche del Ministero ad adempimenti veloci con l’assoluta necessità di evitare i “tempi morti”, di rispettare i termini precisi, brevi e perentori previsti dalla procedura, di prevedere la possibilità di convocazioni straordinarie dell’organo conciliativo e di razionale organizzazione tale da ottemperare alle indicazioni ministeriali.
Giustificato motivo oggettivo e datori di lavoro interessati alla procedura
Detto questo, la nota si sofferma sul concetto di giustificato motivo oggettivo rispetto al quale è obbligatorio effettuare il tentativo di conciliazione. Si parla di ristrutturazione di reparti, di soppressione del posto di lavoro, di terziarizzazione e di esternalizzazione delle attività. Come si vede, si tratta di ipotesi che scaturiscono dai principi fissati dall’art. 3, seconda parte, della legge n. 604/1966 e che fanno riferimento alla necessità di dover “cancellare” quel posto di lavoro nel quadro dell’organizzazione e del funzionamento dell’impresa ed alla impossibilità di una qualsiasi altra utilizzazione all’interno dell’azienda.
La dottrina e la giurisprudenza hanno previsto altre ipotesi di licenziamento che fanno riferimento alla inidoneità fisica, alla impossibilità di “repechage” anche all’interno del “gruppo d’imprese, al licenziamento di un lavoratore a tempo indeterminato in edilizia, per chiusura del cantiere o per fine fase lavorativa, a provvedimenti di natura amministrativa che incidono sul rapporto come, ad esempio, il ritiro della patente di guida ad un autista o del porto d’armi ad una guardia particolare giurata. La procedura non si applica al recesso del datore di lavoro dovuto al superamento del periodo di comporto per il quale è invocabile l’art. 2110 c.c., a seguito di quanto affermato dal D.L. n. 76/2013 convertito, con modificazioni, nella legge n. 99/2013.
Il Ministero invita le articolazioni periferiche dell’Ispettorato a verificare se, in un arco temporale di 120 giorni, il datore di lavoro dell’impresa effettui più di quattro licenziamenti: se ciò dovesse accadere, a fronte di specifiche richieste di attivazione del tentativo obbligatorio, l’Ufficio è tenuto ad invitare l’impresa ad aprire la procedura collettiva di riduzione di personale prevista dalla legge n. 223/1991, non potendo effettuarsi i singoli tentativi conciliativi. Ovviamente, il discorso non si pone, ad esempio, per l’edilizia ove, per fine cantiere o fase lavorativa, l’iter procedimentale della legge n. 223/1991 non si applica (art. 24, comma 4).
Fatta questa breve premessa è necessario verificare, nel concreto, le modalità applicative partendo dalla individuazione dei soggetti nei confronti dei quali trova applicazione.
La circolare n. 3, ripetendo quanto contenuto nei commi 8 e 9 del nuovo articolo 18 della legge n. 300/1970, come modificato dal comma 42 dell’art. 1 della legge n. 92/2012, afferma che sono tenuti al rispetto della norma tutti i datori di lavoro, imprenditori e non imprenditori, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo abbiano alle proprie dipendenze più di quindici unità o più di cinque imprenditori agricoli: la disposizione trova applicazione anche nei confronti del datore, imprenditore o non imprenditore, che nello stesso ambito comunale occupi più di quindici lavoratori, pur se ciascuna unità produttiva non raggiunga tali limiti (anche per l’imprenditore agricolo dimensionato oltre le cinque unità vale lo stesso principio) e, in ogni caso, a chi occupa più di sessanta dipendenti.
Ai fini del computo i lavoratori a tempo parziale indeterminato sono calcolati “pro – quota” in relazione all’orario pieno contrattuale (art. 6 del D.L.vo n. 61/2000), mentre non si computano il coniuge ed i parenti entro il secondo grado sia in linea diretta che collaterale. A tale casistica, a mio avviso, va poi aggiunta l’ipotesi prevista dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 143 del 23 aprile 1998: allora si parlava della c.d. “tutela reale”, oggi si può affermare, alla luce delle novità introdotte, che la nuova procedura (che non necessariamente, in caso di licenziamento illegittimo, porta alla reintegra) può essere estesa anche ai lavoratori dipendenti dalle imprese dimensionate sotto le sedici unità, qualora le stesse, in sede di contrattazione collettiva, si siano impegnate a garantire tale maggiore tutela.
La previsione relativa “all’ampiezza aziendale” ricalca quanto già affermato dal Legislatore del 1970: da ciò scaturisce la piena validità di alcuni indirizzi consolidatisi nel corso degli anni passati presso la Suprema Corte come quello secondo il quale il calcolo della base numerica deve essere effettuato non già nel momento in cui avviene il licenziamento, ma avendo quale parametro di riferimento la c.d. “normale occupazione” nel periodo antecedente, senza tener conto di occasionali contrazioni dell’occupazione.
Il datore di lavoro, sul quale grava, in giudizio, l’onere di dimostrare l’esistenza dei requisiti che lo portano al di sotto della “soglia” (Cass., n. 7227/2002), può provare che il calo è stato determinato da ragioni tecniche, organizzative e produttive (v. Cass., n. 2546/2004; Cass. n. 13274/2003; Cass., n. 12909/2003; Cass., n. 5092/2001). Tale problema risulta ancora più accentuato in quelle aziende ove, per motivi di mercato o di attività svolta in periodi predeterminati, l’occupazione è “in un certo senso” fluttuante: qui la giurisprudenza, fermo restando che l’onere della prova circa la consistenza numerica spetta al lavoratore, è oscillata tra un concetto di media (Cass. n. 2546/2004) ed uno di “normalità” della forza lavoro, riferita all’organico necessario in quello specifico momento dell’anno (Cass., n. 2241/1987; Cass., n. 2371/1986).
Ma quali sono i prestatori di lavoro subordinato che, in ogni caso, non rientrano nel calcolo numerico per l’individuazione della soglia di applicazione? Qui, il riferimento sono alcuni indirizzi legislativi che nel corso degli anni hanno portato alla esclusione di alcuni soggetti e, precisamente:
- Gli assunti con rapporto di apprendistato (ivi compresi gli “over 29” titolari di un trattamento di disoccupazione, senza limiti di età) in quanto l’art. 47, comma 3, del D.L.vo n. 81/2015 li esclude espressamente;
- I lavoratori somministrati che, per effetto dell’art. 34, comma 4, del D.L.vo n. 81/2015, non rientrano nell’organico dell’utilizzatore, fatta eccezione per le disposizioni in materia di sicurezza sul lavoro;
Vanno, invece, compresi nell’organico aziendale, secondo la circolare n. 3:
- I soci lavoratori delle società cooperative di produzione e lavoro che, successivamente all’associazione, hanno sottoscritto un contratto di lavoro subordinato secondo la previsione contenuta nell’art. 1, comma 3, della legge n. 142/2001;
- I lavoratori a domicilio;
- I lavoratori sportivi professionisti, con rapporto di lavoro subordinato che, pur essendo trattati, in materia lavoristica, in modo del tutto “speciale” dalla legge n. 91/1981 (non trovano, ad esempio, applicazione gli articoli 5, 7 e 18 della legge n. 300/1970), rientrano nel computo dimensionale del proprio datore di lavoro;
- I lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto, con l’ovvia esclusione dal computo dei loro sostituti.
Il computo parziale nell’organico non riguarda soltanto i lavoratori ad orario ridotto a tempo indeterminato come detto, esplicitamente, dalla norma, ma anche quelli intermittenti, grazie all’art. 18 del D.L.vo n. 81/2015, che li calcola nell’organico dell’impresa “ai fini dell’applicazione di norme di legge, in proporzione all’orario di lavoro effettivamente svolto nell’arco di ciascun semestre”.
Motivazione del licenziamento, procedura e ruolo del Ispettorato territoriale del Lavoro
C’è, innanzitutto, da affrontare la questione della motivazione del licenziamento.
La circolare n. 3, sottolinea, quasi ce ne fosse bisogno, che nella fase di apertura della procedura essa è rimessa alla sola valutazione del datore di lavoro, secondo la previsione contenuta nell’art. 3, seconda parte, della legge n. 604/1966. Del resto, questo è l’orientamento della Suprema Corte (ex pluris, Cass., 9 luglio 2012, n. 11465), la quale ha affermato che il recesso per giustificato motivo oggettivo le cui motivazioni riguardano strettamente l’attività produttiva (fatta salva l’ipotesi della pretestuosità), non può essere sindacabile dal giudice di merito sotto l’aspetto economico ed organizzativo, in quanto si tratta di un qualcosa strettamente riservato alla scelta imprenditoriale.
Chi, trovandosi nelle dimensioni occupazionali sopra indicate, intende procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, deve inviare una comunicazione, utilizzando il nuovo modello INL 20 bis, all’Ispettorato territoriale del Lavoro, competente per territorio e, per conoscenza, al diretto interessato. La comunicazione è oltre modo fondamentale, in quanto consente di conoscere le motivazioni alla base del provvedimento di recesso che si intende porre in essere.
La nota ministeriale chiarisce senza equivoci alcuni aspetti fondamentali.
Il primo riguarda l’individuazione dell’articolazione periferica del Ministero del Lavoro interessata: essa è quella sulla quale insiste il luogo in cui si svolge l’attività del lavoratore. Fori alternativi, che pure per le controversie di lavoro sono individuati dall’art. 413 cpc, in questo caso non sono presi in considerazione.
Il secondo chiarimento concerne le motivazioni. Queste vanno indicate unitamente alle eventuali misure finalizzate ad una ricollocazione: a mio avviso, rispetto alla procedura prevista dall’art. 4 della legge n. 223/1991, le motivazioni vanno, se possibile, meglio specificate atteso che, in questo caso, il datore di lavoro ha già fatto la propria scelta, mentre nell’iter sui licenziamenti collettivi, l’imprenditore ha evidenziato la situazione di crisi e le cause, ma non ha ancora individuato i lavoratori oggetto del licenziamento, cosa che avverrà secondo i criteri individuati con l’accordo sindacale o, in alternativa, utilizzando quelli individuati, in concorso tra loro, dall’art. 5 della legge n. 223/1991.
Ricevuta la richiesta, “la palla” passa all’ Ispettorato territoriale del Lavoro che deve sollecitamente metterla a convocazione, in quanto i tempi sono molto ristretti, perché trascorsi sette giorni dalla ricezione, senza che sia trasmessa la convocazione, il datore di lavoro (comma 6) può comunicare il licenziamento al lavoratore.
Il termine è “ope legis”, perentorio e non ammette letture diverse. Di qui la necessità di evitare “tempi morti”.
I tempi della procedura sono oggettivamente ristretti e nel computo dei venti giorni complessivi, “sforabili” di comune accordo dalle parti anche su richiesta della commissione (“rectius” sotto commissione di conciliazione, in quanto è questa la composizione più ricorrente dell’organo di mediazione) vanno compresi anche quelli necessari per far sì che la nota di convocazione giunga alle parti. Non convocarle per l’espletamento del tentativo entro i venti giorni, se da un lato consente al datore di lavoro di considerare esaurita la procedura e, di conseguenza, di poter procedere al licenziamento (comma 6), dall’altro significa vanificare la procedura e questo il Ministero del Lavoro non vuole assolutamente consentirlo.
Le parti possono essere presenti personalmente o per delega e, al contempo, possono farsi assistere sia da avvocati e consulenti del lavoro (iscritti all’albo, puntualizza la circolare, con esclusione dei professionisti equiparati ex lege n. 12/1979) che da rappresentanti dell’associazione datoriale o sindacale cui aderiscano o abbiano dato mandato.
C’è, a questo punto, una questione da risolvere che riguarda la delega. La circolare n. 3 sposa una tesi ampia ed in linea con quanto, in passato, la Direzione Generale per l’Attività Ispettiva aveva affermato per le conciliazioni monocratiche: in sostanza, sono pienamente valide anche le deleghe sottoscritte dalle parti, unitamente a copia del documento di identità, o l’autentica rilasciata dallo stesso avvocato che rappresenta ed assiste il proprio cliente.
Entrando nel merito delle questioni relative allo svolgimento del tentativo di conciliazione, il Ministero osserva che l’assenza, non giustificata, del lavoratore, con la conseguente redazione del verbale di assenza, abilita il datore di lavoro ad attuare il recesso, intendendosi concluso l’iter procedimentale, mentre la stessa cosa non può dirsi nel caso contrario. La procedura ha, come si è detto più volte, tempi ristretti e “cadenzati”, non consente atteggiamenti dilatori e deve concludersi entro i venti giorni successivi a quello in cui è stata inviata la convocazione.
Il termine anzidetto, può essere superato, qualora le parti, di comune accordo, lo chiedano per continuare a trattare o anche nell’ipotesi di temporanea sospensione (art. 7, comma 9) in presenza di un legittimo impedimento del lavoratore (anche autocertificabile) che va valutato dalla commissione (o sotto commissione) di conciliazione nella sua autonomia e che può consistere in uno stato di malattia, ma anche in un motivo diverso concernente la propria sfera familiare. La sospensione è prevista per un massimo di quindici giorni e, in ogni caso, non incidono sulla ulteriore durata della sospensione periodi di malattia più lunghi che vanno oltre l’arco temporale considerato. In sostanza, il Legislatore non ha voluto avallare comportamenti dilatori nella procedura, anche se supportati da certificazione medica.
L’organo conciliativo ha una funzione attiva: ciò significa che non deve stabilire chi ha ragione o chi ha torto (tale compito spetta soltanto al giudice), ma deve facilitare la soluzione positiva della controversia non soltanto facendo proposte economiche, ma anche esplorando altre possibilità che non si traducano, necessariamente, nella risoluzione del rapporto (ad esempio, trasformazione a tempo parziale, demansionamento magari anche ex art. 2103 c.c., comma 6, trasferimento in altra unità produttiva, distacco temporaneo in altra azienda, ricollocazione in altra azienda, ecc.).
Qualora l’organo collegiale debba prendere atto dell’impossibilità di giungere ad una soluzione positiva, è tenuto a redigere un verbale di mancato accordo nel quale, oltre ad essere riportate, sia pure succintamente, le posizioni delle parti, dovrà trovare posto la proposta della commissione e, soprattutto, dovranno essere riportate le posizioni delle parti in ordine alla stessa. Tutto questo perché, in sede di ricorso, il giudice tiene conto, qualora ritenga di dover risolvere la questione con il riconoscimento di un’indennità risarcitoria, del comportamento complessivo tenuto, cosa che si riflette anche sul pagamento delle spese di giudizio. Ovviamente, il riferimento alle posizioni espresse dalle parti postula, se richiesto, la necessità che vengano riportate “questioni sostanziali ed eccezioni sollevate dal lavoratore” (ad esempio, si ritiene discriminatorio il licenziamento), o l’assoluta indisponibilità a trovare una soluzione economica.
Ma, il tentativo obbligatorio di conciliazione, può concludersi positivamente e le soluzioni possono essere diverse, anche alternative alla risoluzione del rapporto: in questo caso, la commissione procede alla verbalizzazione dei contenuti (si pensi, ad esempio, ad un trasferimento, alla trasformazione del rapporto da tempo pieno a tempo parziale) che divengono inoppugnabili, trattandosi di una conciliazione avvenuta ex art.410 cpc. Se, invece, si arriva ad una risoluzione consensuale del rapporto, la commissione ne darà atto attraverso il verbale riportandone tutti gli estremi, ivi compresi quelli di natura economica.
La risoluzione consensuale del rapporto al termine del tentativo obbligatorio di conciliazione è l’ipotesi apertamente caldeggiata dal Legislatore (art. 7, comma 7, della legge n. 604/1966) il quale, derogando alla disciplina ordinaria, riconosce il diritto alla NASPI (cosa che si è ripetuta, negli ultimi tempi, nella c.d. “decretazione di urgenza” legata alla pandemia, negli accordi collettivi finalizzati alle risoluzioni consensuali.
Il datore di lavoro che risolve consensualmente il rapporto, pur se ciò è intervenuto al termine della procedura conciliativa obbligatoria, è tenuto a pagare il c.d. “ticket licenziamento”.
È questa, in sostanza, una sorta di partecipazione economica alla “gestione” della fase successiva alla fine del rapporto che, negli intendimenti del Legislatore, dovrebbe costituire una sorta di “remora” a fronte di recessi scarsamente ponderati. In ogni caso, tornando al tema della presente riflessione, si sottolinea che non va confuso l’onere che grava sul datore di lavoro di pagare, comunque, la “quota d’ingresso” alla NASPI, con l’accesso del lavoratore a tale indennità a seguito di risoluzione consensuale avvenuta con la procedura prevista dal nuovo art. 7 della legge n. 604/1966.
In sostanza, il Legislatore offre alle parti un proprio “contributo”, nel senso che a fronte di una soluzione consensuale della controversia, aggiunge una somma che dovrebbe aiutare il lavoratore nel periodo di disoccupazione: non va, peraltro, dimenticata la possibilità che lo stesso possa percepire in un’unica soluzione le mensilità di NASPI a fronte di una nuova attività autonoma intrapresa in prima persona o in cooperativa, seguendo la procedura individuata nel D.M. del Ministro del Lavoro del 2013.
La risoluzione consensuale avvenuta avanti alla commissione di conciliazione esonera il lavoratore dall’effettuare la procedura prevista dall’art. 26 del D.L.vo n. 151/2015 e dal conseguente D.M. applicativo, attesa la caratteristica di imparzialità dell’organo collegiale.
La risoluzione consensuale del rapporto potrebbe, in alcuni casi, essere accompagnata anche dalla composizione di altre questioni di natura economica afferenti il rapporto di lavoro, come le differenze retributive, le ferie non godute o il trattamento di fine rapporto. Il Dicastero del Lavoro ritiene che con il medesimo atto, sia pure tenendo ben separate le questioni, si possa addivenire anche alla soluzione complessiva del problema, purché ci sia la piena consapevolezza e conoscenza da parte del lavoratore circa la definitività e la conseguente inoppugnabilità ex art. 410 cpc.: ovviamente, la riunione, per chiarimenti e delucidazioni, potrebbe, senz’altro, essere rinviata ad altra data.
Licenziamento adottato al termine della procedura ed adempimenti di natura burocratica
Se si fa un breve riepilogo di quanto, sia pure sommariamente, esaminato nel corso di questa riflessione, si possono ipotizzare i momenti e le condizioni nelle quali il datore di lavoro può procedere al licenziamento:
- Entro sette giorni dalla ricezione della comunicazione da parte dell’Ispettorato territoriale del Lavoro se quest’ultima non ha proceduto a convocare le parti entro il termine appena nominato, che è di natura perentoria (art. 7, comma 6, della legge n. 604/1966);
- Entro venti giorni dal momento in cui l’Ispettorato territoriale del Lavoro ha trasmesso la convocazione per l’incontro: esso è il termine entro cui il tentativo obbligatorio si deve concludere, fatte salve le eccezioni di cui si è già parlato (art. 7, comma 6, della legge n. 604/1966);
- A partire dal giorno fissato nella lettera di convocazione dell’Ispettorato territoriale del Lavoro, se il lavoratore non si è presentato all’incontro, senza addurre alcuna giustificazione (circolare n. 3/2013 Ministero del Lavoro) o in caso di abbandono della procedura durante la discussione (cosa che va verbalizzata dall’organo collegiale);
- Al termine della procedura di conciliazione conclusasi con esito negativo (art. 1, comma 41, della legge n. 92/2012).
Il licenziamento adottato produce effetti “dal giorno della comunicazione con cui il procedimento è stato avviato”: esso coincide con quello della ricezione, da parte dell’Ispettorato territoriale del Lavoro, della comunicazione del datore relativa alla c.d. “intenzione di licenziamento”, fatto salvo l’eventuale diritto del lavoratore al preavviso o alla indennità sostitutiva.
Il periodo di eventuale lavoro svolto durante l’iter procedurale si considera come “preavviso lavorato”. Lo scopo che si è posto il Legislatore è quello di individuare una data certa e “legale” di risoluzione del rapporto, con lo scopo di evitare possibili ripercussioni e ribadisce quanto affermato dalla norma: nel periodo di tutela della maternità è “nullo alla radice” e, al contempo, la circolare sottolinea l’effetto sospensivo sul recesso nel periodo di tutela della maternità anche durante il periodo in cui opera l’infortunio sul lavoro. La malattia, invece, non genera alcun effetto sospensivo.
La nota ministeriale si preoccupa degli obblighi di comunicazione di cessazione del rapporto richiamando la lettera del 12 settembre 2012 secondo la quale “esigenze di certezza in ordine agli esiti della procedura impongono di individuare come dies a quo ai fini della comunicazione in questione quello della risoluzione del rapporto senza tener conto della circostanza secondo la quale la stessa risoluzione produce effetto dal giorno della comunicazione con cui il procedimento è stato avviato, come prevede la nuova normativa introdotta dalla legge n. 92/2012”. In questi casi, gli effetti retroattivi del licenziamento non incidono sul termine di effettuazione della comunicazione obbligatoria on-line al centro per l’impiego che è di cinque giorni dalla data di effettiva cessazione del rapporto. La sanzione, in caso di inottemperanza, è compresa tra 100 e 500 euro, ed il pagamento può avvenire in misura ridotta pari a 100 euro, oltre alle spese di notifica.
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Il tentativo obbligatorio di conciliazione nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo [E.Massi]
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