Il lavoro intermittente in caso di divieto del CCNL: la posizione della Cassazione [E.Massi]
La Corte di Cassazione ha affermato, confermando la decisione della Corte di Appello di Bologna, la piena legittimità di un contratto di lavoro intermittente stipulato tra un datore di lavoro ed un lavoratore
Con una recente sentenza, la n. 29423 del 13 novembre 2019, la Cassazione ha affrontato un tema, quello della validità di un contratto di lavoro intermittente, o “a chiamata”, in presenza di un divieto esplicito fissato nel CCNL di categoria.
Prima di entrare nel merito della decisione, per certi versi innovativa e che incide su un orientamento amministrativo espresso dal Ministero del Lavoro con la nota n. 18194 del 4 ottobre 2016, ritengo necessario, sia pur brevemente, ricapitolare le modalità di prestazione del lavoro intermittente, oggi disciplinate dagli articoli compresi tra il 13 ed il 18 del D.L.vo n. 81/2015.
Dopo aver sottolineato che tale tipologia riguarda prestazioni lavorative che si caratterizzano per la discontinuità e l’intermittenza secondo le esigenze individuate dai contratti collettivi, l’art. 13 stabilisce che i casi di utilizzo sono individuati dalla pattuizione collettiva e che, in mancanza della stessa, essi vengono individuati con D.M. del Ministro del Lavoro (cosa avvenuta nel provvedimento che porta la data del 23 ottobre 2004, il quale conserva ancora la propria validità in quanto pur divenuto desueto per moltissime mansioni stante il richiamo al R.D. n. 2657/1923, non è stato ancora oggetto di revisione). Tale casistica non ha limiti di età cosa che, invece, avviene in altre due ipotesi contemplate dal Legislatore: quella del contratto sottoscritto con soggetti di età inferiore ai 24 anni, purchè la prestazione termini entro il venticinquesimo anno (norma riconosciuta conforme all’ordinamento comunitario dalla Corte di Giustizia Europea con sentenza del 26 luglio 2017 – C 143/16-), o con lavoratori “over 55”: in tali ipotesi non c’è una alcuna delimitazione per mansioni o qualifiche, potendo il lavoro intermittente operare “a tutto campo”.
Limiti temporali sono fissati dalla norma (art., 13, comma 3) allorquando, con la sola eccezione dei settori del turismo, dei pubblici esercizi e dello spettacolo (ove maggiore è il ricorso), si afferma che il lavoro “a chiamata”, con lo stesso datore di lavoro è ammesso, per un periodo complessivamente non superiore a 400 giornate di effettivo lavoro nell’arco di 3 anni e che il superamento di tale limite comporta la trasformazione del rapporto in contratti di lavoro subordinato a tempo pieno ed indeterminato.
Ricordo, poi, per completezza di informazione, che:
- il contratto va stipulato per iscritto e la comunicazione di instaurazione del rapporto deve essere inviata telematicamente al sistema delle comunicazioni obbligatorie, attraverso l’UNILAV: esso può essere sia a termine (ma non trovano applicazione le regole in uso per il contratto a tempo indeterminato) che a tempo determinato;
- nei rapporti a termine va pagato il contributo addizionale dell’1,40% (art. 2, comma 28, primo periodo, della legge n. 92/2012), mentre non ritengo che vada pagato anche lo 0,50% progressivo, atteso che il secondo periodo introdotto dall’art. 3 del D.L. n. 87/2018 fa riferimento, esclusivamente, ai contratti a tempo determinato (con esclusione di quelli domestici), ed ai contratti in somministrazione. La stessa circolare INPS n. 121 del 6 settembre 2019 non fa alcun riferimento esplicito al pagamento dello 0,50% nei casi di lavoro intermittente a termine (in ogni caso, su questo punto, credo che ci siano, al momento, alcune riflessioni in corso tra l’Istituto ed il Ministero del Lavoro);
- il lavoro intermittente è vietato in alcune ipotesi specifiche ben individuate dall’art. 14, ove sono compresi, il divieto di sostituzione di lavoratori in sciopero, l’utilizzazione di lavoratori in sostituzione di altri con la stessa qualifica in integrazione salariale o di lavoratori licenziati a seguito di procedura collettiva (qui il blocco, salvo determinazione diversa scaturente da accordi sindacali, è di 6 mesi), l’utilizzazione senza valutazione dei rischi in applicazione della normativa di tutela della salute e sicurezza sul lavoro;
- prima della prestazione lavorativa o di un ciclo integrato di prestazioni non superiore a 30 giorni va comunicato al sistema informatico del Ministero la durata delle stesse, con le modalità previste in un apposito decreto interministeriale del 27 marzo 2013 e nella successiva circolare n. 27 del 27 giugno 2013,
- la sanzione amministrativa, in caso di in ottemperanza, senza applicazione della diffida, è compresa tra 400 e 2.400 euro per ciascun lavoratore interessato. La mancata previsione della diffida non consente di soddisfare la sanzione amministrativa con il pagamento dell’importo nella misura minima;
- l’indennità di disponibilità, prevista, minuziosamente, dall’art. 16 che consentirebbe, con l’esborso di un importo mensile, di “fidelizzare” il lavoratore “a chiamata”, non viene pressoché mai inserita dai datori di lavoro nel contratto;
- il trattamento economico, normativo e previdenziale (art. 17, comma 2) è riproporzionato in ragione della prestazione lavorativa effettivamente eseguita, in particolare per quanto riguarda la retribuzione globale e le singole componenti di essa, nonché delle ferie e dei trattamenti di malattia ed infortunio, congedo di maternità e parentale;
- il lavoratore intermittente (art. 18) viene calcolato nell’organico dell’impresa in proporzione all’orario di lavoro effettivamente svolto nell’arco di ciascun semestre: tutto ciò vale in tutte quelle ipotesi in cui il numero dei dipendenti sia rilevante ai fini dell’applicazione di particolari istituti legali o contrattuali.
Vengo ora ad esaminare la questione che ha dato luogo al pronunciamento della suprema Corte.
Un lavoratore, assunto come intermittente da una impresa di autotrasporto sulla scorta della voce n. 8 (“Personale addetto al trasporto di persone e di merci”) del R.D. n. 2657/1923, richiamato dal D.M. 23 ottobre 2004, aveva chiesto alla Cassazione l’annullamento della decisione della Corte di Appello di Bologna che aveva riconosciuto la legittimità del contratto, sostenendo che nel caso di specie si era verificata una erronea interpretazione ed una falsa applicazione di norme di diritto con riferimento al disposto dell’art. 34, comma 1, del D.L.vo n. 276/2003 (del tutto analogo, oggi, alla previsione contenuta nell’art. 13 del D.L.vo n. 81/2015). Tale assunto scaturiva dal fatto che il CCNL del settore autotrasporto, vigente nel 2011, prevedeva il divieto di assunzione con contratto “a chiamata”. Tale concetto trovava propria forza anche in un indirizzo amministrativo del Dicastero del Lavoro che con una nota del 2016 sosteneva, in presenza di un divieto contrattuale, la impossibilità di attivazione della tipologia intermittente ed invitava le proprie articolazioni periferiche a far sì che gli ispettori, nei casi di specie, riconducessero il rapporto nell’alveo della subordinazione a tempo indeterminato. Di conseguenza, il ricorrente chiedeva che il rapporto “de quo” fosse considerato sin dall’inizio come subordinato ed a tempo pieno ed indeterminato.
La Corte, dopo aver fatto un dettagliato “excursus” sulla normativa di riferimento (tra l’altro, tra il 2007 ed il giugno 2008 fu anche abrogata) ha ritenuto infondato il motivo del ricorso in quanto la tesi della configurabilità di un potere di veto affidato alla contrattazione collettiva in ordine alla utilizzabilità delle prestazioni intermittenti, non ha trovato riscontro nel dato testuale e sistematico della disciplina.
Infatti, proprio partendo dall’esame del comma 1 dell’art. 34 del D.L.vo n. 276/2003 (sul punto, come già detto, il testo attuale contenuto nell’art. 13 del D.L.vo n. 81/2015 è analogo, con una maggiore apertura verso la contrattazione aziendale o territoriale, con il richiamo all’art. 51, circa la possibilità di individuare la casistica) la Corte ha affermato che il rinvio alla contrattazione collettiva ha uno scopo ben precipuo: quello di consentire alle parti sociali prossime allo “specifico settore oggetto di regolazione”, di individuare le situazioni lavorative che giustificano il ricorso a tale tipologia. Il Legislatore, prevedendo un potere sostitutivo da parte del Ministero del Lavoro (cosa avvenuta con il D.M. 23 ottobre 2004) vuole garantire l’operatività dell’istituto, prescindendo dal comportamento inerte o contrario delle organizzazioni sindacali datoriali e dei lavoratori. La delega alle parti sociali va, quindi, vista “in positivo”. Non risulta, poi, esplicitato, in alcun passaggio che, un divieto al ricorso del lavoro intermittente possa “stoppare” nel settore il ricorso al lavoro “a chiamata” in quanto la disposizione offre al contratto collettivo soltanto la possibilità di indicare una casistica di applicazione.
Tale assunto, ricorda la Cassazione, è avvalorato da un’altra considerazione: il comma 3 dell’art. 34 (ora art. 14 del D.L.vo n. 81/2015) elenca, minuziosamente, le ipotesi in cui il ricorso all’intermittente è vietato (in questa riflessione sono, sommariamente, indicati al punto c) con la conseguente trasformazione, in caso di inottemperanza, a contratto a tempo indeterminato, ma tra essi non risulta citato il divieto riscontrabile in un contratto collettivo.
L’orientamento della Suprema Corte non è, a mio avviso, indifferente rispetto a quanto la Direzione Generale per ‘Attività Ispettiva del Ministero del Lavoro sostenne con la nota n. 18194 del 4 ottobre 2016.
Rispondendo ad un quesito posto dalla Direzione territoriale di Trieste-Gorizia (ora, ITL) per il tramite della Direzione interregionale di Venezia (ora IIL del Nord-Est) e portato a conoscenza di tutti gli Uffici periferici, fu affermato che, pur in presenza di un divieto posto dalla contrattazione collettiva alla stipula di contratti di lavoro intermittente, era, comunque, possibile stipulare contratti di lavoro intermittente, in ogni caso, con soggetti con meno di 24 anni, purchè le prestazioni lavorative si concludessero entro il venticinquesimo anno, e con lavoratori con più di 55 anni, secondo un indirizzo già espresso nell’interpello n. 10/2016.
La nota si concludeva con questa affermazione, vincolante per gli ispettori del lavoro: “Ne consegue che la violazione delle clausole contrattuali che escludano il ricorso al lavoro intermittente determina, laddove non ricorrano i requisiti soggettivi sopra richiamati, una carenza in ordine alle condizioni legittimanti l’utilizzo di tale forma contrattuale e la conseguente applicazione della sanzione della conversione in rapporto a tempo pieno ed indeterminato”.
Ora, l’indirizzo interpretativo della Corte di Cassazione che fa seguito alla decisione presa in analogo senso dalla Corte di Appello di Bologna postula, a mio avviso, la necessità che l’Ispettorato Nazionale del Lavoro, correggendo il precedente orientamento della Direzione Generale per l’Attività Ispettiva (confluita, “in toto” con la riforma in vigore dal 2017, nell’INL) riveda tale posizione per non mettere gli organi di vigilanza che si trovassero di fronte a situazioni analoghe a quella esaminata dalla Cassazione, nella condizione di emettere atti che, poi, potrebbero essere annullati in via giudiziaria.
Del resto, in attesa dei chiarimenti appena richiamati, i “Capi degli Ispettorati” ed i responsabili del c.d. “processo vigilanza” più attenti non potrebbero non tener conto di quanto espresso dalla Suprema Corte che rappresenta un indirizzo ben più autorevole del parere espresso dalla Divisione II^ dell’allora Direzione Generale per l’Attività Ispettiva. Tale indirizzo si sostanzia nei seguenti principi che, per completezza di informazione, vado a ricapitolare:
- le parti sociali non sono destinatarie di alcun potere interdittivo in ordine alla possibilità di utilizzazione del lavoro intermittente;
- le disposizioni legali prevedono un potere di intervento sostitutivo da parte del Ministero del Lavoro da adottarsi con D.M.: ciò sta a significare che il Legislatore intende garantire l’operatività di tale tipologia contrattuale, prescindendo da qualsiasi intendimento contrario od inerte delle parti sociali;
- l’art. 34 del D.L.vo n. 276/2003 (ora ripreso nell’art. 13 del D.L.vo n. 81/2015) individua, espressamente, le ipotesi in cui il lavoro “a chiamata” è vietato e tra queste non è contemplato il veto o l’inerzia delle parti sociali.
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