L’ indennità risarcitoria nei licenziamenti illegittimi [E.Massi]
Un’analisi della nuova disposizione che ha rivalutato l’ indennità risarcitoria intervenendo sugli importi per il risarcimento in caso di licenziamento illegittimo
L’attenzione dei media e degli operatori è stata richiamata da una novità, contenuta nel D.L. n. 87/2018, attraverso la quale l’Esecutivo ha rivalutato l’ indennità risarcitoria prevista dall’art. 3, comma 1, del D.L.vo n. 23/2015 che ha rappresentato uno dei provvedimenti di maggiore novità del Jobs act. Tale operazione si è realizzata con l’art. 3 il quale ha rivisto, al rialzo, intervenendo su due dei tre elementi, gli importi per il risarcimento in caso di licenziamento illegittimo per giustificato motivo oggettivo, soggettivo o giusta causa riferibile ai lavoratori assunti a tempo indeterminato a partire dal 7 marzo 2015, data “spartiacque” anche riguardo alla applicazione delle tutele previste dall’art. 18 della legge n. 300/1970.
Prima di entrare nel merito occorre, a mio avviso, ben identificare a favore di chi può trovare applicazione la nuova disposizione. Ho già accennato ai soggetti assunti a tempo indeterminato a partire dal 7 marzo 2015: la norma si riferisce ai dipendenti (operai, impiegati o quadri, con l’esclusione implicita, in quanto non nominato, del personale con qualifica dirigenziale), comunque assunti con una tipologia contrattuale a tempo indeterminato, tra cui rientra anche l’apprendistato, ed a prescindere dalla dislocazione oraria della prestazione come nel rapporto a tempo parziale.
Questi lavoratori, però, non sono i soli dipendenti “potenzialmente” destinatari.
Nella tutela (art. 2, comma 2) rientrano anche coloro che, titolari di un rapporto a tempo determinato o di apprendistato iniziato prima del 7 marzo 2015, hanno visto convertito o “consolidato” il proprio contratto dopo tale data e chi (art. 2, comma 3) pur dipendente, da prima del 7 marzo 2015, con un contratto a tempo indeterminato, da un piccolo datore di lavoro dimensionato sotto le quindici unità e che, comunque non integrava i requisiti occupazionali previsti dai commi 8 e 9 dell’art. 18 della legge n. 300/1970, abbia visto, nel tempo, crescere gli organici, per effetto di assunzioni successive, in maniera tale da superare le soglie sopra richiamate.
La prima domanda che è opportuno porsi riguarda l’assetto normativo: con questa modifica il Governo si è limitato ad apportare soltanto una modifica ai parametri risarcitori o è intervenuto nel merito dei criteri alla base dell’art. 3, comma 1, del D.L.vo n. 23/2015?
La risposta è chiara: l’intervento normativo “non tocca” minimamente i due criteri di cui la predetta disposizione è portatrice.
La regola dell’indennizzo in caso di licenziamento illegittimo (con l’eccezione del “disciplinare”, per fatto materiale rivelatosi insussistente e dei casi gravi di nullità per violazione di legge, discriminatori, ritorsivi, insussistenza delle motivazioni nel recesso che colpisce i portatori di handicap, “normati” nell’art. 2) e la misura “di base” dell’indennità che è sottratta alla discrezionalità del giudice, pur se supportata da elementi oggettivi, non hanno subito modifiche: quest’ultima continua ad essere correlata all’anzianità aziendale, istituto che il Legislatore delegato definì nei minimi particolari prevedendo, all’art. 8, anche il computo per le frazioni di mese e di anno.
Affermava la vecchia norma che nelle ipotesi in cui si riscontri che non ricorrono gli estremi del licenziamento (cosa che comporta una valutazione da parte del giudice di merito) per giustificato motivo oggettivo (ad esempio, mancata soppressione del posto di lavoro, mancato repechage e la questione è da valutare anche alla luce del nuovo art. 2103 c.c., come sostituito dall’art. 3 del D.L.vo n. 81/2015 ecc.) , o per mancato motivo soggettivo anche di natura disciplinare (notevole inadempimento nella prestazione lavorativa) o giusta causa (quella che non consente la continuazione, neanche provvisoria, del rapporto di lavoro), il giudice dichiara cessato il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di una indennità, non assoggettata ad alcuna contribuzione, pari a due mensilità della ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, per ogni anno di servizio, in misura non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità.
Ora, secondo la nuova previsione, l’indennità che, ha natura anche risarcitoria (oltre che sanzionatoria e satisfattiva), pur partendo da una base di due, non può essere inferiore a sei mensilità e non superiore a trentasei mensilità calcolate sull’ultima retribuzione utile ai fini del calcolo del TFR. Occorrerà riflettere se i nuovi importi possano rispondere ai requisiti sopra evidenziati, atteso che, in passato (in diversi casi, giustamente) ci si era lamentati della efficacia non dissuasiva dell’apparato sanzionatorio che, peraltro, esclude qualsiasi onere contributivo.
Ma cosa si intende per ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, concetto puntualmente più tecnico di ultima retribuzione globale di fatto adoperato per l’art. 18 della legge n. 300/1970?
Qui, l’ovvia correlazione è rappresentata da ciò che afferma l’art. 2120 c.c. il quale stabilisce che nella retribuzione da accantonare annualmente vanno computate tutte le somme corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro a titolo non occasionale, comprese quelle in natura ed escluse quelle che trovano la loro ragione nel rimborso spese. Il Ministero del Lavoro, con l’interpello n. 43 del 3 ottobre 2008, precisò che se il CCNL prevede espressamente quali elementi della retribuzione vanno calcolati e quali no, il datore è tenuto a rispettarlo, a prescindere da qualsiasi ulteriore considerazione.
Quindi, retribuzione mensile oltre ai ratei delle mensilità aggiuntive ed ai c.d. “elementi non occasionali”.
Una breve riflessione va, a mio avviso, riservata agli elementi non occasionali della retribuzione utili ai fini del calcolo del trattamento di fine rapporto: vanno computati quelli collegati al rapporto lavorativo o connessi alla particolare organizzazione (Cass., 19 febbraio 2009; Cass., 3 novembre 2008, n. 11002) o in dipendenza con le mansioni stabilmente svolte (Cass., 14 giugno 2005, n. 24875). Da ciò discende che ai fini del calcolo è sufficiente che il lavoratore ne abbia goduto in via normale, pur non essendo gli stessi definitivi. Vanno esclusi soltanto gli elementi sporadici ed occasionali, collegati a situazioni aziendali fortuite ed imprevedibili. Per i beni in natura (ad esempio, l’alloggio) occorre fare riferimento al valore normale del bene e non all’eventuale valore convenzionale fissato ai fini fiscali o contributivi.
A mero titolo esemplificativo e non esaustivo, riporto alcune voci relative alla computabilità:
- lavoro straordinario: ci rientra se prestato con frequenza in relazione alla particolare organizzazione del lavoro o, anche, allorquando viene forfetizzato;
- indennità per lavoro notturno, festivo o a turni: ci rientra se essa è espressione della normale programmazione aziendale;
- alloggio: ci rientra se c’è una effettiva connessione tra l’attribuzione e la posizione lavorativa (Cass., 12 aprile 1995, n. 4197);
- premi di fedeltà: ci rientrano se la liberalità originaria si è trasformata in un vincolo obbligatorio (Cass., 29 febbraio 2008, n. 5427);
- indennità di trasferta: ci rientra se costituisce una stabile componente della retribuzione (Cass., 24 febbraio 1993, n. 2255);
- indennità per i trasfertisti: ci rientra se il disagio derivante dall’attività fuori sede viene retribuito in modo strutturale come voce della retribuzione ordinaria (Cass., 20 dicembre 2005, n. 28162);
- indennità per lavoratori impegnati all’estero: ci rientrano in quanto viene compensata la maggiore gravosità ed il disagio ambientale (Cass., 19 febbraio 2004, n. 3278);
- indennità di cassa se corrisposta in maniera continuativa (Cass., 7 giugno 1968 n. 1739);
- indennità di cuffia (Cass., 10 maggio 1980, n. 3089);
- indennità sostitutiva del preavviso pur non essendo il corrispettivo di una prestazione di lavoro (Cass., 22 febbraio 1993, n. 2114).
Riprendendo la domanda sul significato di ultima retribuzione di riferimento utile per il calcolo del trattamento di fine rapporto, la risposta parte dalla retribuzione annuale accantonata per il calcolo del TFR, divisa per i mesi dell’anno, senza alcun reale riferimento alla retribuzione dell’ultimo mese sulla quale, in alcune realtà aziendali, che hanno punte stagionali o attività caratterizzate da saltuarietà, potrebbero interferire elementi transitori.
Dopo questa breve parentesi e tornando all’argomento di questa riflessione non si può non ricordare come nelle descrizioni dei “media” e nelle dichiarazioni rilasciate da commentatori ed esponenti politici in questi giorni, si affermi che l’indennità è aumentata del 50%: ciò è vero se si pensa al limite minimo dell’indennità che non può essere inferiore a sei mensilità (prima erano quattro) ed a quello massimo trentasei mensilità (prima erano ventiquattro). Tuttavia, poiché non è mutata la misura di base del computo (due mensilità all’anno calcolate in relazione all’anzianità aziendale) gli effetti della riforma, ai fini dell’applicazione massima del risarcimento (che riguarda soltanto i dipendenti delle imprese con un organico superiore alle quindici unità) sono fortemente dilazionati nel tempo.
Come si diceva, la disposizione si applica ai lavoratori assunti dopo l’entrata in vigore del D.L.vo n. 23/2015 (7 marzo 2015): un rapido calcolo, essendo la misura correlata all’anzianità aziendale, ci porta ad affermare che il tetto massimo dei trentasei mesi per i lavoratori assunti, ad esempio nel luglio del 2015 e licenziati illegittimamente, si raggiungerà nel luglio del 2.033 e, negli anni successivi per coloro che sono stati assunti a partire dal 2016: tutto questo perché, pur essendo assicurato “un minimum” di sei mensilità, il moltiplicatore è rimasto uguale (due mensilità). Tanto per fare un altro esempio si può prendere quale parametro di riferimento il caso di un lavoratore, assunto a luglio del 2015 da un datore di lavoro dimensionato oltre le quindici unità, che ha “goduto” dell’esonero contributivo triennale previsto dalla legge n. 190/2014, e licenziato, dopo trentasei mesi con una motivazione ritenuta illegittima dal giudice. Con il vecchio criterio l’ indennità risarcitoria era pari a sei mensilità (frutto del risultato della base di calcolo non inferiore a quattro a cui vanno ad aggiungersi le due mensilità correlate all’anzianità per il terzo anno), con il nuovo criterio il lavoratore percepisce ugualmente sei mensilità che rappresentano il limite minimo risarcitorio, non essendo attivabile quello legato all’anzianità, atteso che le due mensilità per ogni anno di anzianità aziendale portano per tre anni di rapporto ad un ammontare complessivo di sei mensilità.
Un vantaggio per il lavoratore licenziato ingiustamente si registra, invece, se il recesso interviene nei primi due anni: è il caso del lavoratore assunto a luglio 2016 da un datore di lavoro che ha anche fruito dell’esonero contributivo biennale previsto dalla legge n. 208/2015 e licenziato a luglio 2018: ebbene, con la nuova normativa l’indennità per licenziamento illegittimo è, oggi, pari a sei mensilità, mentre, prima, essendo l’anzianità aziendale pari a ventiquattro mesi, con un “minimum” di quattro mensilità, sarebbe stata, appunto, di quattro mensilità.
L’incremento che sto esaminando va, necessariamente, correlato anche con l’art. 9 del D.L.vo n. 23/2015 ove si afferma che per i datori di lavoro che non raggiungano i limiti dimensionali previsti dai commi 8 e 9 dell’art. 18 della legge n. 300/1970 (sono quelli piccoli) e quelli non imprenditori che svolgono, senza fine di lucro, attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione o di religione o di culto, gli importi previsti dall’art. 3, comma 1 (che ora sono due mensilità all’anno partendo da una base di sei) sono dimezzati (quindi, una mensilità all’anno partendo da una base di tre) ma, il tetto massimo, evidenziato esplicitamente all’art. 9, che non è stato ritoccato, continua ad essere pari a sei mensilità. Da ciò ne consegue che il lavoratore licenziato illegittimamente da un piccolo datore non potrà mai avere un risarcimento indennitario superiore a tale soglia e, meno che mai, le trentasei mensilità.
Paradossalmente, in una piccola impresa, ove il datore di lavoro è rimasto sotto i limiti dimensionali viene ad essere maggiormente tutelato un lavoratore, assunto prima del 7 marzo 2015 che, per effetto dell’art. 8 della legge n. 604/1966, fruisce, in luogo del rifiuto della riassunzione da parte del datore, di indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio ed alle condizioni delle parti (sulla base di un potere discrezionale che il Legislatore ha riconosciuto al giudice). La misura massima può essere maggiorata fino a dieci mensilità se il dipendente ha una anzianità aziendale superiore ai dieci anni: essa può salire fino a quattordici se il lavoratore ha una anzianità superiore ai venti anni, che occupino più di quindici unità. La sussistenza di tale ultimo requisito, secondo una interpretazione fornita dalla Cassazione con la sentenza n. 6531/2001, scatta in presenza del requisito dell’anzianità ma soltanto per quel datore di lavoro che “occupa complessivamente più di quindici e fino a sessanta dipendenti, distribuiti in unità produttive e ambiti comunali aventi ciascuno meno di quindici dipendenti”.
L’incremento della indennità per licenziamenti illegittimi riverbera i propri effetti anche sui licenziamenti collettivi per riduzione di personale attivati secondo la procedura prevista dagli articoli 4 e 24 della legge n. 223/1991 e che riguardano i lavoratori assunti, a tempo indeterminato, a partire dal 7 marzo 2015. Afferma, infatti, l’art. 10 del D.L.vo n. 23/2015 che se il licenziamento è affetto da vizi procedurali (il richiamo è al comma 12 dell’art., 4 della legge n. 223/1991) o la scelta del lavoratore risulta errata in base ai criteri previsti dall’accordo sindacale o dalla legge (art. 5, comma 1), trova applicazione l’art. 3, comma 1, ora riformato (estinzione del rapporto alla data del recesso e corresponsione di una indennità risarcitoria, non assoggettata a contribuzione, pari a due mensilità calcolate sull’ultima retribuzione utile ai fini del calcolo del TFR, per ogni anno di servizio, con una base di partenza di sei e, comunque, entro un tetto massimo fissato a trentasei mensilità).
Nulla è cambiato per l’offerta conciliativa ad accettazione del licenziamento ex art. 6 del D.L.vo n. 23/2015, ove i valori delle somme, esenti da IRPEF, correlati all’anzianità aziendale (data di assunzione e data di licenziamento risultanti dalle comunicazioni obbligatorie), sono rimasti uguali: una mensilità all’anno, calcolata sull’ultima retribuzione utile ai fini del TFR, partendo da una base di due, fino ad un massimo di diciotto. Tali valori sono ridotti alla metà (mezza mensilità all’anno partendo dalla base di una) per i datori di lavoro individuati all’art. 9 ai quali si è fatto cenno pocanzi, con un tetto massimo fissato a sei mensilità.
Due riflessioni, si rendono necessarie rispetto alle cose appena dette.
La prima riguarda la nuova indennità risarcitoria che nei limiti massimi (sia pure rapportati all’anzianità aziendale) appare superiore (trentasei mesi) rispetto alla tutela economica prevista dall’art. 18 che, ad esempio, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo è compresa tra dodici a ventiquattro mensilità, ma che, ai fini dell’applicazione giudiziale tiene conto di una serie di parametri. Ovviamente, il valore superiore, come detto in precedenza, non è assolutamente immediato in quanto il limite massimo di trentasei si raggiungerà dopo diciotto anni di anzianità presso lo stesso datore (con la sola eccezione dei lavoratori impiegati negli appalti ove – art. 7 – vige il principio dell’anzianità nell’appalto e di quelli transitati presso altro datore ex art. 2112 c.c.).
La seconda riguarda l’offerta conciliativa ex art. 6 che, alla luce delle nuove indennità appare “meno conveniente”, rendendo più appetibile, per il lavoratore, affrontare l’alea del giudizio.
Un’ultima considerazione: come è noto pende davanti alla Corte Costituzionale una istanza di remissione del giudice di Roma su diversi aspetti del D.L.vo n. 23/2015 tra cui quello della inadeguatezza dell’indennità prevista dall’art. 3, comma 1: la identificazione di parametri economici più alti, se confermati dalla legge di conversione, potrebbe far venir meno, su questo punto, la decisione della Consulta.
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