Il lavoro a chiamata e l’eta’ anagrafica dopo le puntualizzazioni della corte di appello di Milano

editoriale di Eufranio MassiCon una sentenza destinata a suscitare alcune riflessioni di non poco conto, la Corte di Appello di Milano, con la sentenza n. 406 depositata il 3 luglio 2014, è intervenuta, riformando una precedente decisione del Tribunale, sul licenziamento di una lavoratrice con la quale il datore aveva instaurato un  rapporto di lavoro intermittente: la motivazione alla base del recesso era il superamento del limite dei 25 anni di età (allora previsto dalla norma che, nel frattempo – legge n. 92/2012 – è stato elevato fino al giorno antecedente il compimento del ventiseiesimo anno).

Per ben comprendere il ragionamento della Corte di Appello ritengo opportuno effettuare un breve riepilogo della situazione che ha portato la ricorrente ad impugnare la risoluzione del rapporto.

La lavoratrice era stata assunta con un contratto di lavoro intermittente a tempo determinato e part-time per quattro, con inquadramento al sesto livello CCNL del commercio, successivamente trasformato, dopo una proroga, in rapporto a tempo indeterminato, sempre “a chiamata”, atteso che l’interessata non aveva ancora raggiunto i 25 anni di età che, all’epoca, era il limite massimo previsto dall’art. 34, comma 2, del D.L.vo n. 276/2003 per lo svolgimento di prestazioni intermittenti “in ogni caso”.

Al superamento dell’età massima prevista dalla norma il datore di lavoro aveva comunicato alla lavoratrice che non l’avrebbe più “chiamata”, per il superamento del limite anagrafico previsto dal Legislatore.

Il ricorso si è, fondamentalmente, ancorato su due requisiti essenziali:

a)      il carattere discriminatorio della condotta del datore di lavoro in aperta violazione dell’art. 6  della Direttiva CE 2000/78 e dell’art. 3 del D.L.vo n. 216/2008 che ha dato attuazione in Italia ai principi di quella Direttiva;

b)      lo svolgimento dell’attività presso il datore di lavoro non aveva avuto in alcun modo la caratteristica dell’intermittenza o della discontinuità che sono postulati dal comma 1 dell’art. 34 del D.L.vo n. 276/2003.

La decisione della Corte di Appello, superate alcune questioni di natura procedimentale, è stata accompagnata da una interessante disquisizione sui contenuti della Direttiva comunitaria, con “agganci” a decisioni della Corte Europea di Giustizia che aveva trattato, sotto diversi profili, il requisito dell’età correlato a determinate tipologie contrattuali. La Direttiva ritiene essenziale effettuare distinzioni tra disparità di trattamento che sono giustificate da obiettivi particolari e discriminazioni che debbono essere assolutamente vietate. Quello dell’età è un principio generale dell’ordinamento comunitario che va tutelato e che non può essere alla base di una motivazione di licenziamento: di qui, l’obbligo per il giudice nazionale di disapplicare la normativa del proprio Paese confliggente con quella europea. A tal proposito, i giudici di Milano richiamano diverse sentenze della Corte di Giustizia

Le disparità di trattamento ammesse possono comprendere:

a)      la definizione di condizioni di accesso speciali all’occupazione ed alla formazione professionale, di occupazione e di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e di retribuzione, per i giovani, i lavoratori anziani e i lavoratori con persone a carico, onde favorire l’inserimento professionale o assicurare la protezione degli stessi (si pensi, ad esempio,in Italia, all’apprendistato, alla tutela dei disabili o ai prepensionamenti ex art. 4 della legge n. 92/2012);

b)      la fissazione di condizioni minime di età, di esperienza professionale o di anzianità di lavoro per l’accesso all’occupazione o a taluni vantaggi connessi all’occupazione (si pensi, alla normativa incentivante per gli “over 50”  o per i ricercatori);

c)      la fissazione di un’età massima per l’assunzione basata sulle condizioni di formazione richieste per il lavoro in  questione o la necessità di un ragionevole periodo di lavoro prima del pensionamento (si pensi, all’età massima per assumere giovani con rapporto di apprendistato).

L’art. 34 del D.L.vo n. 276/2003 non richiama alcuna delle ipotesi individuate ai punti precedenti e, secondo la Corte di Appello di Milano, la discriminazione giustificatrice sia della tipologia contrattuale, che del recesso, per il superamento del limite dei 25 anni (ora dei 26, se il contratto è stato stipulato prima del compimento dei 24 anni), non trova alcuna ragionevole motivazione, apparendo una violazione del principio generale di uguaglianza che trova la propria fonte sia in vari strumenti internazionali che nelle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri.

Il comportamento del datore di lavoro che ha risolto il rapporto di lavoro soltanto per il superamento del limite massimo di età ha posto in essere un comportamento discriminatorio e come tale censurabile: il fatto che lo stesso si sia limitato ad applicare una disposizione legale vigente cosa che porterebbe ad escludere una volontà lesiva ed intenzionale, appare ininfluente, in quanto l’elemento soggettivo non ha alcuna specifica valenza, in quanto ciò che rileva è l’esito finale che è costituito dalla oggettiva condizione di trattamento disuguale sulla base dell’età, pur se l’ipotesi discriminatoria discende dalla volontà del Legislatore.

La conclusione a cui sono, infine giunti, i giudici di appello, è stata la rimozione della condotta discriminatoria con il “non riconoscimento” del contratto intermittente ex art. 34, comma 2 (e con la conseguente “disapplicazione” della norma), con la reintegra della lavoratrice a tempo indeterminato e parziale nell’azienda e con un risarcimento del danno nella misura di 14.540 euro, oltre agli interessi ed alla rivalutazione. Il danno è stato determinato avendo quale parametro di riferimento la retribuzione media mensile percepita nel corso del rapporto pari a 727 euro da agosto 2012 alla data della sentenza.

Fin qui la decisione di merito della Corte di Appello di Milano che, a mio avviso, apre nuovi possibili scenari nella gestione del lavoro “a chiamata” che, attualmente, dopo continue modifiche legislative si può definire con le seguenti caratteristiche:

a)      è un contratto, in forma scritta, che può essere concluso per lo svolgimento di prestazioni di carattere discontinuo o intermittente secondo le esigenze individuate dalla contrattazione collettiva nazionale o territoriale o per predeterminati periodi nell’arco della settimana, del mese o dell’anno. In assenza della disciplina contrattuale, le parti (è questa da anni la regola) possono ricorrere a tale tipologia contrattuale facendo riferimento alle ipotesi inserite all’interno del D.M. 23 ottobre 2004 che richiama, “ratione materiae” (essendo il Regio Decreto stato abrogato) il R.D. 2657/1923;

b)      al di fuori delle ipotesi precedenti, il rapporto può instaurarsi con soggetti “over 55” o con lavoratori “under 24”, fermo restando che in tal caso le prestazioni contrattuali debbono essere svolte entro i 25 anni e 364 giorni di età. La Corte di Appello di Milano ha rimarcato come per i giovani lavoratori interessati da questa norma il Legislatore ne abbia previsto l’utilizzazione, in ogni caso, senza alcun rinvio alla contrattazione collettiva, come previsto, in via generale, al comma 1 e come “tale diversità di trattamento non trovi una valida e ragionevole comprensione”, atteso che il contratto non è giustificato neanche da una motivazione che faccia riferimento allo “status” di disoccupato o di inoccupato. Ciò appare in contrasto, secondo i giudici di Appello, con l’art. 6 della Direttiva CE 2000/78, il quale impone, ai fini di un trattamento differenziato rispetto alla disciplina generale, i due requisiti della finalità legittima e della proporzionalità, cosa che non si rinviene nella norma di riferimento che parla soltanto dell’età senza alcuna altra specificazione;

c)      non si può ricorrere al lavoro intermittente per sostituire lavoratori in sciopero, lavoratori (con le stesse mansioni)  licenziati a seguito di procedura collettiva, nei sei mesi successivi, o in integrazione salariale straordinaria, fatti salvi diversi accordi sindacali;

d)     la mancata valutazione dei rischi ex D.L.vo n. 81/2008 comporta la identificazione del contratto intermittente come contratto a tempo indeterminato;

e)      la durata massima è nell’arco di un triennio mobile (iniziato il 28 giugno 2013 con l’entrata in vigore del D.L. n. 76/2013) di 400 giornate il cui superamento comporta la qualificazione del contratto come rapporto a tempo indeterminato. La disposizione, tuttavia, non si applica nei tre settori che, statisticamente, più fanno ricorso al lavoro intermittente: lo spettacolo, il turismo ed i pubblici esercizi;

f)       prima dell’inizio della prestazione va inviata la comunicazione di utilizzazione (anche per più prestazioni), in via elettronica, ad un indirizzo ministeriale o, a certe condizioni, ad un sms, sempre ministeriale. Il mancato rispetto della disposizione è sanzionato attraverso una somma compresa tra 400 e 2.400 euro e non è sanabile attraverso la diffida obbligatoria (ossia, nell’importo minimo).

La sentenza della Corte d’Appello di Milano che è la prima a soffermarsi sulla natura discriminatoria del contratto di lavoro intermittente stipulato (e non confermato) sulla base del solo requisito anagrafico è, pur sempre, una decisione di merito che ha riformato il giudizio di primo grado (ove non era stato riconosciuto il carattere discriminatorio) e che vale per il caso concreto ma che potrebbe avere una certa diffusione, con prevedibili altri contenziosi.

Al momento, comunque, ritengo che sarebbe opportuno effettuare, in ogni caso, alcune puntualizzazioni che riguardano la natura del contratto “a chiamata” rispetto al quale, sovente, si fa fatica a riconoscerne i connotati. La Corte di Appello di Milano ha posto l’accento sul carattere, sottolineato dallo stesso art. 34, comma 1,  dell’intermittenza o della discontinuità, ravvisabile sia nelle ipotesi richiamate dal comma 2 (quelle legate all’età) che nelle previsioni della pattuizione collettiva anche per periodi predeterminati (pochissime) che, infine, in  quelle (provvisorie, ormai da un decennio) stabilite con provvedimento ministeriale e che non sono legate al requisito anagrafico. Tali caratteristiche debbono sempre esistere pur se la prestazione intermittente si svolge in un periodo abbastanza lungo: tanto per fare un esempio, non si può parlare di prestazione intermittente per un lavoratore di un ristorante che lavori durante un determinato arco temporale con continuità, sospesa (come accade, più spesso di quel che sembri) nel giorno in cui il locale resta chiuso per riposo settimanale. Il “piano di lavoro” può svilupparsi anche per un periodo abbastanza continuato ma le prestazioni debbono, come affermato anche dai chiarimenti del Ministero del Lavoro, debbono avere una certa “intermittenza” tale da non far combaciare la tipologia con prestazioni riconducibili ad un rapporto di lavoro a tempo determinato.

C’è, poi, la questione dell’età anagrafica, prevista al comma 2 dell’art. 34, per la quale i giudici hanno evidenziato una caratteristica discriminatoria, in quanto, invece di favorire un ingresso lavorativo, abilita i datori di lavoro a risolvere il rapporto al raggiungimento del limite massimo di età consentito. Qui,  se l’orientamento seguito dai giudici di Milano, teso alla disapplicazione della disposizione, dovesse fare proseliti, la questione dovrà, necessariamente, essere, nuovamente, affrontata dal Legislatore, magari attraverso una rivisitazione delle tipologie contrattuali all’interno del disegno di legge delega sul “Jobs Act”, attualmente all’esame del Parlamento.

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Eufranio Massi
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E' stato per 40 anni dipendente del Ministero del Lavoro. Ha diretto, in qualità di Dirigente, le strutture di Parma, Latina, i Servizi Ispettivi centrali, Modena, Verona, Padova e Piacenza. Collabora, da sempre, con riviste specializzate e siti web sul tema lavoro tra cui Generazione vincente blog.

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